La Vecchia panchina

Tutto è silenzio attorno, non vedo movimenti, ho quasi l’impressione di essere il solo essere vivente in questo giardino fatato

La Vecchia panchina

 

Syrio, CC BY-SA 4.0 , attraverso Wikimedia Commons
Syrio, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, attraverso Wikimedia Commons

 

Apro gli occhi e mi ritrovo seduto su questa vecchia panchina di legno.

Intravvedo il legno dalle fessure della vernice celeste che si scrosta in lunghi graffi lineari che pare vogliano evocare i tagli di Fontana sulle sue tele.

Non ho memoria di quando mi sono seduto su queste   panchine, né in quale occasione ho varcato il confine che separa la città, ormai grigia e rumorosa, dal silenzio luminoso di questo giardino.

Non ci penso, mi guardo attorno, poi l’occhio è attratto dal bianco ai miei piedi: sembra un Acrome di Pietro Manzoni, in realtà è un vialetto di sassolini bianchi spezzati, ove il bianco assume tante tonalità diverse, secondo la posizione delle loro facce spezzate verso la luce.

Tutto è silenzio attorno, non vedo movimenti, ho quasi l’impressione di essere il solo essere vivente in questo giardino fatato.

Osservo con più attenzione i sassolini ai miei pedi; qualcosa si muove, concentro la vista e vedo puntini neri apparire e scomparire secondo una linea retta che dalla panchina va verso quel ciuffo d’erba che pone fine ai sassolini. Fisso un puntino lontano e lo seguo, fa un percorso che lo porta spesso a procedere sotto i sassolini, lo seguo fino ai miei piedi e capisco.

Qualcuno ha usato questa mia panchina per fare colazione e ha disperso briciole in gran quantità attirando le formiche dal prato. Ma come avranno fatto le formiche a capire che qui, sotto i miei piedi, a oltre due metri dal confine del prato c’era questa miniera di cibo fresco.

Non ho problemi di tempo per cui mi sono soffermato a seguire il percorso di ritorno della colonna di formiche dalla panchina al prato dove, verosimilmente si trova il formicaio.

Mentre le vedevo avvicinarsi all’erba la mente è andata a quando da ragazzino, con gli amici del rione, si andava nel campo alla ricerca di un piccolo vulcano di terra morbida, prova certa di presenza della “casa delle formiche”. Il nostro divertimento era scavare con una pala proprio sotto la montagnola di terra morbida. Un colpo di pala e scoppiava il finimondo, in un attimo un brulicare di puntini neri impazziti, come atomi sotto la fiamma, e poi tante briciole di colore grigiastro, le uova che ogni formica cercava di riportare in salvo nella tana. Il nostro piacere era vedere quello scoppio improvviso di vita pena la morte di chissà quanti nati e nascituri, ma la nostra sensibilità verso gli altri esseri viventi, in particolar se insetti, purtroppo era nulla.

Mentre la testa andava lontano nel tempo, l’occhio si spostava vicino, sulla distesa bianca del ghiaino, attratta da un puntino rosso, una coccinella che si stava riscaldando al sole, immobile, con le ali leggermente aperte, un ulteriore segno di vita e colore. Forse è lì perché le pietruzze spezzate del vialetto sono calde, ideali per asciugare le alette bagnate in qualche pozza d’acqua

Mentre a sinistra osservavo con autentico piacere la coccinella al sole, a destra ho intravisto un movimento saltellante.

Un grillo nero aveva superato la piccola barriera d’erba che separa il vialetto dal prato.

Lo vedo dentro una scatola con un po’ di terriccio e qualche filo d’erba, coperta da un foglio di plastica trasparente. Mi piaceva avere un mio piccolo zoo d’insetti casalingo, ma in pochi giorni il grillo era immobile con le zampette in su. Forse è ancora vivo, lo prendo e lo riporto fuori, nella terra. Al rientro da scuola passo a vedere. Non c’è più. Bene, si è ripreso. Poi un passerotto scende dove lo avevo lasciato e osservo meglio. Quello è il resto di una zampetta.

Riporto l’occhio sul grillo del vialetto, è ancora lì, è vivo. Beato lui, penso, mentre con un salto rientra nel prato.

Fa freddo, l’aria è pungente, ma il sole a mezzogiorno riscalda l’aria. Mi piace restare seduto su questa vecchia panchina e guardare. Gli alberi attorno sono ancora senza foglie, sembrano scheletri immobili di esseri morti. Il tepore del sole mi fa assopire. Mi pare di sentire l’acqua che scorre lontana, un lento ma continuo fluire. Apro gli occhi, non ci sono ruscelli in questo giardino. L’occhio cade sul ramo che sembra un lungo braccio verso la panchina. Lo fisso, qualche puntino verde qua e la. Sono gemme. Ma è troppo presto! Penso.

Ci deve essere un gran movimento dentro quest’albero. La linfa che scorre continua, come ruscello nel prato, avrà il suo ben da fare nel frenare l’impazienza di giovani gemme desiderose di uscire, liberarsi dal liquido amniotico per respirare luce e aria. A nulla vale l’avvertimento delle possibili gelate e il rischio per la loro precoce esistenza. Per fortuna altre gemme sono meno impazienti e attendono il via libera dalla più esperta linfa.

Tutto sembrava immobile quando ho aperto gli occhi e mi sono ritrovato seduto su questa vecchia panchina e non so ancora se questo giardino, chiuso a sinistra da un muro a secco, a destra da un’alta siepe e in fondo dalla parete di un alto edificio, esista davvero.

Chiudo gli occhi con la speranza di ritrovarmi, vivo, da dov’ero partito.

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