NuvoleAlte

MONICA CAROCCI

CON UN TESTO DI CRISTIANA PERRELLA

DA GIOVEDì 15 APRILE 2021
FINO Al 12 GIUGNO

 
14.jpg
 
 

NuvoleAlte

cristiana perrella

Conosco Monica Carocci da molti anni, da quando tutte e due eravamo all’inizio della nostra carriera e cercavamo di emergere in una scena artistica – primi anni Novanta, tra Torino e Roma – molto vivace e molto maschile.  I primi lavori che ricordo di lei sono immagini di bambole Barbie fotografate con la tecnica che sarebbe diventata un suo tratto distintivo: scatto in bianco e nero, poi interventi a più riprese in camera oscura, durante le fasi di sviluppo e stampa, fino ad alterare completamente sia l’immagine di partenza che il supporto, poi nuovo scatto della foto manipolata, infine stampa in grandi dimensioni. Da quel lungo processo, da quel trattamento tanto manuale che fotografico – bruciature con acidi, aggiunte, abrasioni, cancellature, ingrandimenti – le immagini emergevano come visioni: evanescenti, indefinite, misteriose,  macchie di luce ritagliate su uno sfondo buio. Sfocati, sovraesposti, solarizzati, i soggetti ripresi erano trasfigurati, irriconoscibili anche quando familiari, e però presenti,  di una presenza forte,  profonda, come quella dei ricordi che non sempre aderiscono alla realtà ma piuttosto ne creano una propria, diversa ma non meno vera.  Le sue foto portavano alla luce, letteralmente, ciò che spesso l’occhio umano non è in grado di afferrare e percepire, l’anima delle cose, anche le più banali, la loro segreta energia. Negli anni Monica ha affinato questa capacità di rendere, attraverso il suo lavoro,  le cose intorno a noi presenti in modo nuovo,  vive di una vita metafisica.  Ha applicato il suo sguardo e la sua tecnica a soggetti “classici” dell’arte e della fotografia: ritratto, paesaggio, natura morta, animali, dimostrando quanto possano essere freschi e ancora generativi.  Con l’immediatezza di un rayogram, la capacità rivelatrice di un effetto Kirlian (quello attraverso il quale si pensava potesse essere visualizzata l’aura di un corpo) le sue immagini  si danno come impronte del reale, sembrano manifestarsi senza la mediazione di alcuna tecnologia, direttamente sulla carta, con una bellezza soprannaturale. Sembrano coagularsi e farsi tutt’uno con la fisicità del supporto, carta baritata tagliata in modo irregolare, i margini lasciati al vivo.

La ricchezza di possibilità espressive e la profondità del suo approccio alla fotografia sono state tali da consentirle un percorso di estrema coerenza e riconoscibilità: trent’anni di lavoro in cui non si è mai allontanata dalla sua tecnica,  in cui non si è mai stancata della camera oscura, dell’analogico, del bianco e nero, dell’alchimia di interventi, errori, casualità che genera le immagini.

A farla  discostare da una pratica così centrata  ci sono volute condizioni straordinarie, quelle determinate da un viaggio in Africa –in Uganda nel 2019 per restituire per immagini il lavoro difficile di una onlus che opera nell’ambito della chirurgia plastica ricostruttiva - e quelle imposte dalla pandemia, con l’isolamento, il confinamento, l’orizzonte limitato al luogo in cui si vive.

In Africa Monica porta, insieme alla sua Leica,  una macchina digitale modificata. Da tanto pensa di lavorare sull’infrarosso, perciò fa un esperimento convertendo una Nikon di seconda mano comprata su ebay, togliendo il filtro sopra al sensore. Sceglie il digitale perché permette di lavorare con tempi rapidi, senza lunghe attese, difficili in quel contesto. Quando il calore e le condizioni estreme mettono fuori uso la macchina principale, non le rimane che utilizzare la Nikon.  La fotografia a infrarossi è uno sguardo nel mondo invisibile. L’occhio umano può vedere lunghezze d’onda nello spettro dal viola al rosso, oltre non percepisce.  La macchina invece vede molto più in là, vede radiazioni che  fanno l’acqua e il cielo quasi neri e le foglie degli alberi chiare, che penetrano leggermente sotto l'epidermide, dando ai volti un effetto particolarmente etereo e irreale.  Le cicatrici terribili che Monica fotografa a Fort Portal non hanno perciò la crudezza del reportage ma  si trasformano, sono disegni sulla pelle, che da scurissima diventa chiara.

Tornata in Italia, la parentesi di sperimentazione sarebbe chiusa ma la pandemia, il lockdown, la solitudine forzata rendono improvvisamente pesante, quasi insopportabile,  il lavoro in camera oscura. Accantona perciò l’analogico e, ripresa la Nikon a infrarossi, la rivolge come sempre verso ciò che ha intorno a sé, verso ciò che è vicino e familiare e che , attraverso le sue immagini diventa un altro mondo.  Solo che la trasformazione avviene ora tutta al momento dello scatto, senza il corpo a corpo dell’elaborazione della materia della fotografia. Torino è una città ricca di verde, ha il fiume, i parchi. La natura in quest’ultimo anno è stata per molti - anche per me-  una consolazione,  piante e fiori recisi dentro casa, prati e alberi fuori.  Per Monica  è un territorio da scoprire con occhi nuovi, un altrove che offre il rifugio dell’immaginazione.  Basta  invertire il punto di vista, rovesciandolo, scambiare i riflessi nell’acqua con le cose che li hanno generati;  bastano nuovi colori surreali, onirici, notturni; basta lasciare spazio ai dettagli, perché l’occhio ci si perda e non trovi più la strada della realtà. Tutto cambia,  un mondo magico appare, sospeso in uno stato di crepuscolare esitazione, di sospensione che annuncia un cambiamento profondo.  Il paesaggio, radioattivo,  fiabesco, immobile,  genera insieme fascino e vertigine perché è l’epifania di un mondo sul quale l’uomo non sa più agire e che per questo potrebbe non comprenderlo più.  Dargli forma, farlo immagine,  è un modo di rispondere alla crisi, di affermare la propria presenza, la propria esistenza nello stesso momento in cui si comprende la propria fragilità.

RASSEGNA STAMPA:

ARTFORUM, ARTRIBUNE, EXIBART, IL SEGNO