L’esordio nel film noir americano (1945-50)

CAPITOLO III

L’ esordio nell’ analisi del film

1. L’ esordio e l’ eroe.

Marc Vernet, analizzando in chiave psicanalitica sei esordi di film noir , ha riscontrato uno schema narrativo ricorrente: l’ esordio rappresenta sempre una situazione stabile, di tranquillità, rassicurante per lo spettatore . In questo ambiente di inattività si instaurano le prime relazioni tra i personaggi, si formula un contratto: la vittima chiede all’ eroe di risolvere il suo problema in cambio di una ricompensa. “Héros et victime sont tou deux, au début du film, oisifs, mais leur oisivité n’ est pas de même nature: le premier aspire à sortir, la seconde à y retourner. Le héros rendrà a la victime la paix pour retrouver les épices de l’ aventure.” . Eroe e vittima possiedono tratti contrari: la vittima è impotente, l’ eroe è forte e coraggioso; la vittima è ricca, l’ eroe spiantato . Il contratto tra i due stabilisce un programma a breve termine, canalizza e direziona, per l’eroe come per lo spettatore, la finzione. In breve “le premier temps du film noir met en fait sur pied une machine narrative qui a tout pour ‘tourner’: des personnages fortement marqués et aux fonctions clairment distribuées (le héros, la victime, l’ aggresseur), une énigme dont on a pris soin de préciser qu’ elle était restreite ou faible,et enfine une orientation fixée et annocée” . La grandezza e il coraggio dell’ eroe in questa prima parte sono fuori discussione: la vittima lo chiama proprio per questi suoi tratti indiscutibili. Ma subentra una seconda parte in cui la situazione si complica, i conti sembrano non più tornare: è ciò che Vernet chiama le pot au noir . In questa fase “le héros, comme le spectateur, se retrouve bloqué (…): le fil a soudain été rompu. La vérité, qui paraissait si proche, se dérobe et file à l’ horizon: elle est escamotée” . La grandezza dell’ eroe viene messa in discussione, lo spettatore non sa più cosa e a chi credere: il significato e la direzione del senso sono confusi . Alla fine però “le héros rétablit, puor lui même ou pour les autres, la situation initiale, en éliminant les méchants. En ce sense, la solution de l’ énigme est une re-mise en place, où une croyance (…) prend définitivement le pas sur toutes les autres.” Nella prima parte l’ eroe è forte e domina la situazione: tutti gli elementi concordano per formare un insieme equilibrato e stabile. In seguito interviene un episodio che denuncia come illusoria la credenza precedente, distruggendo l’ equilibrio e la tranquillità. Da questo momento in poi lo scopo del film sarà restituire all’ eroe la sua statura originaria, il controllo della situazione come nella fase iniziale . Nel corpus di film che in questa sede prendiamo in considerazione lo schema di Vernet è applicabile solo in parte: la figura dell’ eroe evidenziata da film come Il grande sonno o Una donna nel lago , l’ uomo “tutto d’ un pezzo” che riesce sempre e comunque a risolvere la situazione, non è un luogo comune del genere noir. Schematizzando molto possiamo dividere in tre grandi fasi la figura dell’ eroe così come emerge tra il 1945 e il 1950:

1) Film tra il ‘45 e il ‘46: La scala a chiocciola – Robert Siodmak, 1945 Acque del sud – Howard Hawks, 1945 Io ti salverò – Alfred Hitchcock, 1945 La jena – Robert Wise, 1945 I Gangster – Robert Siodmak, 1946 Lo strano amore di Martha Ivers – Lewis Milestone, 1946 Il grande sonno – Howard Hawks, 1946 Il postino suona sempre due volte – Tay Garnett, 1946 Lo specchio scuro – Robert Siodmak, 1946 Gilda – Charles Vidor, 1946 La signora di Shanghai – Orson Welles, 1946 Lo straniero – Orson Welles, 1946

Gran parte di questi film rispecchiano la figura dell’ eroe nei tratti delineati da Vernet: sono legati da un sotteso ottimismo sulle capacità del protagonista che, alla fine, riesce sempre a risolvere il problema. La pazzia, tema ricorrente nel noir del dopoguerra, viene giustificata con la psicanalisi. In Io ti salverò la protagonista Constance Peterson (Ingrid Bergman), medico psichiatra, riesce a svelare il mistero dell’ omicidio del dottor Edwardes, di cui si incolpa John Ballantine (Gregory Peck), solo con la forza della sua volontà. John aveva rimosso un’ episodio della sua infanzia in cui involontariamente provocò la morte del fratello minore. Il senso di colpa inconscio lo ha portato a incolparsi anche di questo omicidio, mentre il vero responsabile era il direttore della clinica psichiatrica in cui Costance lavorava. Constance non esita a mettere in pericolo la propria vita pur di dimostrare l’ innocenza di John, sulla quale non possiede altre prove che la sua convinzione professionale. Alla fine riesce a fargli ricordare l’ accaduto e a consegnare alla giustizia il vero colpevole. Un tema simile è affrontato, anche se più indirettamente, in La scala a chiocciola , in cui il dottor Perry (Ken Smith) intuisce che il mutismo di Helen Capel (Dorothy McGuire) non è congenito ma dipende da uno schock che la ragazza ha subito da bambina. Nel finale del film Helen riacquisterà la parola in seguito ad un secondo schock: la scoperta che il misterioso assassino che uccideva tutte le giovani donne con qualche difetto fisico è proprio il professor Warren (George Brent), il padrone della casa in cui lavora. Il tema della pazzia è ancora toccato in altri due film di questi anni: Lo strano amore di Martha Ivers e Lo specchio scuro . Martha Ivers (Barbara Stanwyck) è travolta insieme al marito Walter O’Neill (Kirk Douglas) dalla cupa passione per il denaro ed il potere, fino al suicidio. La loro avidità è tale da lasciare completamente indifferente a quest’ ultimo gesto Sam Masterson (Van Heflin), loro amico fin dall’ infanzia. Ne Lo specchio scuro viene compiuto un omicidio: la colpevole è una donna, identificata da molti testimoni. Il caso sembrerebbe già risolto, ma la donna accusata ha una sorella gemella perfettamente identica. Essendo impossibile stabilire quale delle due sorelle, se Ruth o Therry Collins (Olivia De Havilland), abbia commesso il delitto, il giudice le assolve entrambe. Gli studi di un professore sulle due gemelle porteranno alla luce la pazzia di Therry: questa, gelosa di Ruth perché preferita dagli uomini, ha ucciso il futuro marito della sorella. Anche il dottor McFarlane (Henry Daniell) in La jena impazzisce per il rimorso di aver assassinato il vetturino Gray (Boris Karloff), ma, di nuovo, il lieto fine è assicurato. Acque del sud si inserisce in quel filone di film antinazisti in cui Humprey Bogart interpreta, come già in Casablanca , un avventuriero disincantato che non esita però a schierarsi dalla parte giusta nel momento giusto. Come ne Il grande sonno il suo coraggio e la sua forza vincono la prepotenza e l’ oppressione dei nemici. In questo periodo le differenze tra i buoni ed i cattivi sono nettamente delineate: non ci sono vie di mezzo, l’ eroe non esita, non ha mai dubbi. L’ unico film in cui iniziano a profilarsi le problematiche affrontate negli anni succesivi è I gangsters : Pete Lunn, soprannominato lo Svedese (Burt Lancaster), una notte é ucciso freddamente da due gangsters nella sua camera. Il defunto ha lasciato un’ assicurazione di 2.500 dollari che Jim Reardon (Edmund O’Brien), un agente della compagnia, deve rimettere agli eventuali eredi. Nella sua ricerca scopre la storia di Pete: costretto a lasciare una promettente carriera nella box per una frattura alla mano, si unisce ad una banda di malviventi guidata da Big Jim Colfax (Albert Dekker). Si innamora della bella Kitty Collins (Ava Gardner), la donna del capo, e al posto suo sconta tre anni di prigione. Uscito partecipa ad un grosso colpo: Kitty lo avverte che che Big Jim ha intenzione di escluderlo dalla spartizione, così Pete trafuga il denaro e lo consegna alla donna che poi sparisce, come nel nulla. Pete sa che i suoi compagni lo cercheranno e si rassegna a morire. Alla fine Reardon scopre che Big Jim e Kitty sono sposati e che insieme si erano serviti di Pete per imbrogliare gli altri compagni. Big Jim, raggiunto anche lui dalla vendetta degli amici, muore mentre Kitty lo implora invano, davanti alla polizia, di scagionarla. Qui la figura dell’ eroe in senso stretto è ancora mantenuta: Jim Reardon riesce a scoprire il movente e gli esecutori dell’ omicidio, anche se osteggiato dalla sua compagnia di assicurazioni, e a consegnare alla giustizia la perfida Kitty solo per amore della verità. Ma il protagonista è certamente Pete: l’ unica sua colpa è stata innamorarsi di Kitty. In fondo non è che una vittima. La donna è spesso raffigurata come ricettacolo del male: Cora Smith (Lana Turner) in Il postino suona sempre due volte , la stessa Martha Ivers (Barbara Stanwyck). Negli anni successivi, come vedremo, saranno sempre più numerose le donne che rendono gli uomini loro schiavi per servirsene a fini malvagi.

2) Film tra il ‘47 e il ‘48: Morirai a mezzanotte – Anthony Mann, 1947 Il caso Paradine – Alfred Hitchcock, 1947 Una donna nel lago – Robert Montgomery, 1947 Il bacio della morte – Henry Hathaway, 1947 La disperata notte – Anatole Litvak, 1947 Odio implacabile – Edward Dmytryk, 1947 Boomerang, l’arma che uccide – Elia Kazan, 1947 L’isola di corallo – John Huston, 1948 Città nuda – Jules Dassin, 1948 Nodo alla gola – Alfred Hitchcock, 1948 Dietro la porta chiusa – Fritz Lang, 1948 Il terrore corre sul filo – Anatole Litvak, 1948 Chiamate Nord 777 – Henry Hathaway, 1948

Questo secondo gruppo di film rappresenta un periodo di transizione: alla fine si stabilisce ancora l’ equilibrio interrotto nell’ esordio, ma l’ eroe diventa man mano più problematico e le motivazioni che lo spingono ad agire più complesse. Vi sono ancora film come Morirai a mezzanotte o Una donna nel lago in cui l’ eroe controlla perfettamente la situazione, ma ve ne sono altri, come Il caso Paradine , Nodo alla gola o Il terrore corre sul filo dove i confini tra il bene e il male alla fine non sembrano più così ben delineati e il protagonista non è più tanto sicuro di se stesso. Spesso l’ eroe è appena tornato dalla guerra in Europa: talvolta è mosso dal desiderio di costruirsi una vita normale, come in Morirai a mezzanotte ; altre volte è rimasto irrimediabilmente segnato da questa esperienza. E’ il caso del tenente Frank McCloud (Huphrey Bogart) in L’ isola di corallo , che scopre amaramente come la stessa prepotenza che aveva combattuto durante la guerra esista, in forme diverse, anche in America. Frank non si dimostra coraggioso contro il gangster Jonny Rocco (Edward G. Robinson) come James Temple (Lionel Barrymore), un anziano americano dai sani principi, si aspetterebbe. Anzi, pensa a sè stesso, a salvare la propria vita: è disincantato e amareggiato, non crede più che un uomo solo possa cambiare il mondo. Anche se poi affronterà i gangsters da solo, al momento giusto, probabilmente soltanto per sposare Nora (Lauren Bacall), la figlia di James. Anche Jo Adams (Henry Fonda) in La disperata notte è tornato dalla guerra: davanti alle menzogne dell’ ambiguo prestigiatore Maximillian (Vincent Price) che gli contende l’ amore di JoAnn (Barbara Bel Geddes) perde la testa e lo uccide. Si chiude poi nella sua stanza, tra i suoi ricordi, mentre la polizia tenterà con tutti i mezzi di catturarlo ed un mare di gente affolla curiosa la piazza sottostante. Alla fine JoAnn riuscirà a parlargli e a convincerlo ad uscire, per ricominciare tutto da capo. La pazzia è ancora giustificata in Dietro la porta chiusa e in Il terrore corre sul filo , ma più spesso il criminale è uno psicopatico, come Tommy Udo (Richard Widmark) in Il bacio della morte o il giovane assassino di padre Lambert in Boomerang . In altri casi la nevrosi viene associata alla teoria del superuomo di Nietzesche, e quindi all’ intolleranza e all’ antisemitismo, come accade in Odio implacabile e Nodo alla gola . Inizia a farsi strada il problema morale: ne Il bacio della morte Nick Bianco (Victor Mature) si trova a dover scegliere tra tradire i suoi complici o lasciare le sue due figlie in un orfanotrofio; la signora Paradine (Alida Valli) preferisce essere condannata per omicidio piuttosto che incolpare il suo compagno. L’ uomo nella sua individualità è il vero protagonista, l’ uomo che sceglie, anche se perde, come Henry Stevenson (Burt Lancaster) in Il terrore corre sul filo , o l’ avvocato Kean (Gregory Peck) de Il caso Paradine . Un tratto ancora ricorrente in questo periodo è la “singolare, quasi santa,innocenza delle vittime del pregiudizio e dell’ odio” : Boomerang, Chiamate Nord 777, Odio implacabile sono tutti film che si scagliano con forza contro l’ innocente accusato ingiustamente. Michael Wood ricorda una battuta del finale di Odio implacabile : Robert Young spara a Robert Ryan, l’ antisemita; qualcuno vedendo Ryan sul pavimento chiede se sia morto, e Young risponde “Era morto da un pezzo, solo che non lo sapeva” . La condanna dell’ intolleranza è totale e definitiva. Il pieno ottimismo degli anni precedenti inizia a lasciare il posto ad un pessimismo velato: i finali di film come Nodo alla gola , Il caso Paradine , La città nuda in fondo non concludono nulla. Il bene o il male non stanno più da una parte sola. Ruppert Cadell (James Stewart) è responsabile dell’ omicidio di David proprio come Brandon, anche se la sua colpa sta sul piano cognitivo mentre quella di Brandon sul piano pragmatico. Allo stesso modo l’ avvocato Kean (Gregory Peck) si rende indirettamente responsabile del suicidio del giovane cameriere cercando di scagionare la signora Paradine. Quando la vicenda di La città nuda si conclude e i colpevoli sono finalmente consegnati alla giustizia, nulla sembra essere veramente cambiato. Dice la voce off: “Ci sono otto milioni di storie nella città nuda. Questa è una” . C’ è inoltre una certa insistenza sul realismo della storia, sia evidenziandone la fedeltà nella ricostruzione filmata girando nei luoghi originari dell’ accaduto (Chiamate Nord 777 , Città nuda , Il bacio della morte) , sia sottolineando come la vicenda che si sta narrando sarebbe potuta accadere in una città qualunque, ad un uomo qualunque (Boomerang , La disperata notte ) .

3) Film tra il ‘49 e il ‘50: La sanguinaria – J.H. Lewis, 1949 La furia umana – Raoul Walsh, 1949 La donna del bandito – Nicholas Ray, 1949 Doppio gioco – Robert Siodmak, 1949 Giungla d’asfalto – John Huston, 1950 La strada del mistero – John Sturges, 1950 La città nera – William Dieterle, 1950

L’ aspetto più evidente che caratterizza quest’ ultimo gruppo di film è la sconfitta finale del protagonista. L’ eroe è cosiderato in modo totalmente diverso, diventa uno strumento di forte denuncia sociale: è in primo luogo un uomo, che si trova, per diversi motivi, nella condizione di criminale. La devianza viene vista come l’ unica strada lasciata aperta dalla società ad alcune categorie di persone in alternativa alla povertà. Il criminale non è più il cattivo: è lo psicotico spietato e senza giustificazioni di La furia umana o La città nera , oppure, più spesso, è condotto alla devianza da una donna senza scrupoli (La sanguinaria, Doppio gioco) , o dal desiderio di riscattarsi dalla miseria (Giungla d’ asfalto , La donna del bandito) . La pazzia diventa folle psicosi distruttiva: Coddy Jarret (James Cagney) in La furia umana è il punto di arrivo della cieca follia criminale, e la morte in un deposito di benzine, in uno scenario apocalittico, rende quasi demoniaca la sua nevrosi. La malattia mentale di John Ballantine (Io ti salverò) o di Therry Collins (Lo specchio scuro) , o ancora di Marco (Dietro la porta chiusa) , era giustificata da un motivo, vi era stato nel passato un episodio che aveva determinato uno squilibrio nel personaggio. Coddy sembra non avere passato: la sua pazzia è totale e definitiva. La città, la metropoli, è vista come grande metafora della società che chiude, opprime, che non concede nessuna possibilità di riscatto o spiegazione: sovente i personaggi di questi anni sognano di vivere in campagna, come Dix Handley in Giungla d’ asfalto , che muore, dopo una lunga fuga, proprio tra l’ erba della fattoria che avrebbe voluto acquistare. La fine comune del criminale è la morte sulla strada, come uno fra tanti. Toglierlo dall’ anonimato e cercare di raccontare la sua storia spetta al noir di questi anni, come in La donna del bandito o Giungla d’ asfalto . Il criminale è solo un rapinatore, quasi mai un assassino: la grande passione per le armi e il folle amore per una donna avida e senza scrupoli ha portato Burt (John Dall) in La sanguinaria a diventare un pericoloso ladro, ma è sempre Laurie (Peggy Cummins) che uccide. Anche Steve Thompson (Burt Lancaster) in Doppio gioco diventa un rapinatore per amore di Anna (Ivonne De Carlo), moglie del boss Slim Dundee (Dan Duryea), che li ucciderà entrambi. Molto spesso il criminale vuole cambiare vita: Bowie di La donna del bandito , Dix di Giungla d’ asfalto , Burt di La sanguinaria . In Il bacio della morte Nick Bianco diventava onesto e riusciva alla fine a far catturare il perfido Tommy Udo. In questo periodo per il criminale non c’è più riscatto: Bowie (La donna del bandito) viene ucciso in un’ imboscata dalla polizia, Burt(La sanguinaria) muore anch’ egli braccato dale forze dell’ ordine, Dix (Giungla d’ asfalto) muore, come abbiamo già detto, dopo una lunga ed estenuante fuga. “Non esiste colpa, ma solo sequenze di circostanze sfortunate che portano al tradimento (e all’ asssassinio, al pregiudizio, all’ alcolismo, alla droga, alla delinquenza, al tentativo di stupro)” : sembra questa la morale di questi film, i cui protagonisti sono smarriti, non sanno mai con certezza che cosa vogliono o dove stanno andando. Sono comunque dei perdenti, ma non hanno responsabilità su ciò che gli accade.

La figura dell’ eroe nel noir è, come si è visto, complessa: cambia con i tempi e la società . Il genere stesso nasce negli anni Trenta, dal proibizionismo e dalla depressione, ed è sempre stato in qualche modo vicino alla realtà. “Nessuna fiaba può escludere completamente il mondo. Ma nessuna fiaba fedele alle proprie convinzioni può accoglierne troppo” . I motivi che hanno provocato questa trasformazione negli anni successivi alla seconda guerra mondiale sono vari ed eterogenei: vanno dalla crisi economica all’ espandersi della criminalità organizzata, dalla disoccupazione alla corruzione politica. In questa sede volevamo sottolineare come la figura dell’ eroe che ristabilisce l’ equilibrio interrotto nell’ esordio appartenga solo ad un certo periodo del genere. In molti casi infatti non esiste equilibrio né all’ inizio né alla fine (La donna del bandito, Doppio gioco, La furia umana, Giungla d’ asfalto, La città nera) : l’ esordio presenta già una situazione precaria, di instabilità, e la fine determina la disfatta dell’ eroe, il suo scacco definitivo.

2. Il carattere “omeostatico” del cinema classico.

Jacques Aumont sostiene che confrontando la sequenza iniziale con quella finale si può verificare una grande caratteristica del cinema narrativo classico: la sua tendenza a ristabilire sempre l’ equilibrio, “ce qu’ on pu appeler son côté ‘homéostatique’” . Abbiamo già visto nel paragrafo precedente come una generalizzazione di questo tipo sia assolutamente infondata. In alcuni film o in alcuni periodi si può effettivamente riscontrare un equilibrio nell’ esordio ed un equilibrio nel finale, ma sembra del tutto azzardato dire che questa sia una caratteristica generale del cinema narrativo classico, almeno per quanto riguarda il genere noir nel periodo del dopoguerra. Soprattutto i film a ridosso degli anni Cinquanta iniziano presentando una situazione tutt’ altro che equilibrata: La donna del bandito esordisce con una fuga di tre detenuti dal carcere, La furia umana con un assalto al treno, Giungla d’ asfalto e Doppio gioco con una rapina, La strada del mistero con un omicidio, che si inserisce in un ambiente di malavita e prostituzione. Si può anzi dire che gran parte dei personaggi di questi anni tendano ad un equilibrio, che però non riescono mai a raggiungere. Talvolta il finale può ristabilire la giustizia, nel senso che il criminale viene catturato o ucciso, ma ciò non vuol dire assolutamente ritrovare un equilibrio. E’ il caso di film come La città nuda, La donna del bandito, Giungla d’ asfalto, I gangsters, La città nera, Il terrore corre sul filo o La furia umana , in cui l’ epilogo turba e amareggia più di un finale tragico: segna soltanto l’ impossibilità di un riscatto o l’ inutilità del lavoro della polizia.

3. L’ esordio come matrice del film.

L’ idea di un esordio che fondi in se stesso i principi e le regole della finzione narrativa è stata proposta da diversi autori. Marie Claire Ropars, analizzando le sequenze iniziali di Ottobre (i primi 69 piani), ha per prima definito questa parte del film come “une matrice, exposant le modèle théorique d’ un processus révolutinnaire que le film réalisera en l’ historicisant” . Secondo questa concezione l’ esordio è il momento fondamentale di tutto il film: fonda le ‘regole del gioco’, manifestando i termini essenziali del racconto e la forma attraverso la quale si produce il significato.“Par l’ obligation qu’ elle impose de déchiffrer son codage spécifique avant de pouvoir procéder à une interprétation, la séquence jouerait le rôle de matrice à l’ égard de la totalité du film: incitant à chercher le sens qu’ il se donne dans la maniére dont il produit la signification. Mais l’ action de cette matrice ne suppose pas l’ enfermement préalable du texte dans un système figé qui en déterminererait l’ avenir; elle intervient au contraire comme puissance génératrice, dont les possibilités de développement et de retournrmrnt sont d’ autant plus fortes qu’ elle fonde elle-même son déroulement sur un principe de contradiction: qu’ elle contient donc en elle les germes de sa negation” . Certamente il caso di Ottobre è particolare: si tratta di un film formalista, in cui tutto il lavoro di montaggio è stato subordinato all’ effetto che avrebbe prodotto sullo spettatore. Ma la stessa idea di un esordio che pone in qualche modo le domande e le risposte, manifestandosi come generatore del testo filmico, si ritrova anche nell’ analisi compiuta da Thierry Kuntzel sull’ apertura di The most dangerous game , un film che rientra pienamente nei canoni classici del cinema americano. Secondo Kuntzel il lavoro filmico è basato su due grandi procedimenti simili e paralleli, gli stessi che consentono la formazione del sogno: il processo di condensazione e quello di spostamento. Il primo si ha, ad esempio, in M di Lang, in cui l’ esordio dissemina abilmente vari segnali di minaccia, che culminano nell’ ombra dell’ assassino . Il secondo si ha, ad esempio, in The most dangerous game di Shoedsack e Pichel, in cui i vari temi introdotti in apertura (la malattia, gli squali) si disperdono e si travestono nella narrazione . Questi elementi non sono simboli fissi di problemi psicologici, ma figure che indicano e strutturano le dinamiche della diegesi: “Le film n’ est qu’ apparemment successif. Le film est soumis à une dynamique interne, à un engendrement, à des compression et relâchements de forces” . A questo scopo intervengono, oltre l’ esordio, anche i titoli di testa: “le generique, anodin dans l’ ordre du pheno-texte (le récit n’ est même pas commencé), est la matrice de toutes les représentations et séquences narratives” . L’ apertura dunque, punto di partenza di letture contradditorie e luogo di esitazione, fonda la struttura della narrazione proprio in quanto questa si basa, nel cinema classico americano, su di un continuo gioco di simmetrie e dissimmetrie, di richiami e di strappi, di ripetizioni e di variazioni , che spesso si confondono con l’ oggetto del narrato . “(…) Le film expose ses chaînes signifiantes – l’ ordre successif – dans la simultanéité. Bien plus que le ‘sens’, c’ est le flottement du sens, l’ hésitation de la lecture qui me retient. (…) Le début reste le lieu le plus ‘moderne’ – pluriel – du texte” . L’ idea di un generare del film nel suo esordio è anche sviluppata da Jacques Aumont: questi, riprendendo Barthes , evidenzia due motivi che reggono la costruzione narrativa nel film di finzione: l’ intrigo di predestinazione e la frase ermeneutica. Il primo consiste nel fornire “dans les premiérs minutes du film l’ essentiel de l’ intrigue et sa résolution, ou du moins sa résolution espérée” . L’ intrigo di predestinazione fornisce alla storia e al racconto una direzione e preannuncia, esplicitamente, implicitamente o allusivamente, la risoluzione . Ma “une fois la solution annoncée, l’ histoire tracée et le récit programmée, intervient alors tout l’ arsenal des retards, à l’ intérieur de ce que Roland Barthes appelle la ‘phrase herméneutique’” . Il meccanismo della frase ermeneutica pospone, devia, ritarda il più possibile la soluzione annunciata nell’ esordio, attraverso piste false, sospensioni, rivelazioni, omissioni. Intrigo di predestinazione e frase ermeneutica sono due procedimenti paralleli, ma funzionano come programmi contrari, “ils sont l’ anti-programme l’ un de l’ autre” . L’ intrigo e scioglimento sono già definiti nell’ esordio: il compito della narrazione consisterà nel cercare di naturalizzare la successione degli eventi, simulando una progressione necessaria allo sviluppo del racconto ma totalmente arbitraria. La verosimiglianza è uno dei meccanismi che permettono la dissimulazione della macchina narrativa . Questa costruzione è particolarmente frequente nel film noir, “car loin de ‘tuer’ le suspens, il le renforce” , “il permet de faire en sorte que le spectateur puisse dans le même temps craindre et espérer” . Prendiamo, ad esempio, l’ esordio diDoppio gioco (R. Siodmak, 1949), che corrisponde ad i primi 8 minuti circa: 1) E’ notte: in un parcheggio i fari di un’ auto illuminano per alcuni istanti un uomo e una donna abbracciati; appena questa si allontana i due, Anna (Yvonne De Carlo) e Steve (Burt Lancaster) si scambiano alcune battute, sottovoce. Dal breve colloquio capiamo che il loro incontro sta avvenendo di nascosto da Slim, che in quel momento sta ballando nel locale; sappiamo anche che il giorno dopo accadrà qualcosa e che Anna dovrà aspettare Steve in un cottage: dopo potranno finalmente vivere insieme e lei si farà perdonare di averlo lasciato tempo prima. 2) All’ interno di un locale un cameriere risponde alle domande di Slim Dundee che sta cercando la moglie Anna. Questa rientra subito dopo e dice al marito di essere uscita per rialzare la capotte della sua automobile. Slim non le crede ma lei non dà altre spiegazioni e si allontana seccata. 3) Steve entra nel bar: al bancone il tenente Thompson, un suo vecchio amico, gli consiglia di lasciare il locale per via di Slim. Ma Steve non gli dà retta, ed entra in una piccola stanza separata dove vi sono alcune persone sedute ad un tavolo, tra cui anche Slim. Appena vedono Steve gli uomini allontanano le loro mogli. 4) Un cameriere avverte il tenente Thompson che Slim sta minacciando Steve con un coltello. Questi entra immediatamente nella stanza, convinto di poter cogliere finalmente Slim in flagranza di reato. Ma trova soltanto un coltello per terra: Steve dichiara che si trattava di una discussione personale e che non avrebbe sporto denuncia. 5) Nel retro del locale Slim si sta lavando le mani. Gli altri uomini che erano presenti durante il litigio si chiedono il motivo di quella rissa che doveva in precedenza solo essere simulata, per ingannare la polizia. Uno dei presenti fa riferimento ad alcune allusioni che Slim avrebbe fatto su Steve, domandandogli se si trovasse al parcheggio poco prima. Poi si parla di una rapina al furgone blindato che dovrà avvenire il giorno dopo. Slim, in modo poco convincente, ammette di aver perso la testa, rassicurando così gli altri componenti della banda. Uno di questi ricorda a Steve che dovrà fare in modo di essere lui a guidare il furgone blindato. Steve annuisce: ha pensato a tutto. Una dissolvenza in nero chiude questa sequenza; nella successiva seremo già al giorno seguente, il mattino della rapina. Steve, guidando il furgone, ricorderà il un lungo flashback la sua storia con Anna ed il motivo per cui si ritrova complice di Slim. Nell’ esordio vengono presentate tutte le coordinate della narrazione: l’ amore clandestino tra Steve e Anna; la gelosia, quasi morbosa, di Slim; l’ odio reciproco tra Slim e Steve, che si ritrovano tuttavia complici di una rapina; l’ accordo tra Steve e Anna per ingannare Slim; l’ amicizia tra Steve e il tenente Thompson. Slim cercherà per tutto il film di scoprire Anna e Steve insieme, come già in questa prima parte, ma vi riuscirà solo nel finale, quando li ucciderà entrambi, ma non gli sarà possibile fuggire dalla polizia. Proprio nell’ esordio vi è una forte allusione al finale del film: Slim, mosso dalla gelosia, minaccia Steve con un coltello. Già in questa occasione arriva il tenente Thompson, che tuttavia non riesce ad arrestarlo perché i testimoni sono tutti appartenenti alla banda di Slim. Si ritrovano dunque nell’ esordio tutti gli elementi portanti dell’ intrigo, che la narrazione poi svilupperà, pur mantenedoli costanti nelle loro linee principali: il “doppio gioco”, cioé l’ accordo tra Steve e Anna per liberarsi di Slim, si rivelerà poi “triplo” (Steve non voleva rapinare il furgone, ma aver l’ occasione di uccidere Slim per legittima difesa, per non essere processato di omicidio), o addirittura “quadruplo” (Anna intendeva servirsi di Steve per diventare ricca). La suspense del film si basa sui meccanismi di ritardo che l’ intrigo sviluppa lasciando aperta la minaccia di Slim su Steve e Anna, fino allo scioglimento. Slim diventa, dall’ esordio in poi, un pericolo costante, quasi una spada di Damocle, sempre pronto ad uccidere Steve al suo minimo errore. Quando ciò accade (Steve durante la rapina non riesce a uccidere Slim, ma lo ferisce soltanto, restando egli stesso colpito seriamente) il cerchio delle possibilità si stringe: diventa chiaro che Steve può salvarsi solo con l’ aiuto di Anna. Questa però pensa a se stessa, ed è pronta ad abbandonarlo per fuggire con il denaro: ma Slim arriva troppo presto. L’ esordio si propone quindi come generatore di senso, come fondamento di tutta la narrazione: è il luogo in cui si gettano le basi di comprensione e di direzione, in cui si aprono le possibilità narrative e nello stesso tempo ne si definiscono i limiti: una vera e propria matrice di tutto il testo filmico. Nello stesso tempo, come ha dimostrato l’ analisi di Kuntzel, può anche fondare unità visive ed emozionali che potranno essere riprese, travestite o mascherate ma con lo stesso effetto, nel corso della narrazione. Ad esempio in La scala a chiocciola (Robert Siodmak, 1945) i titoli di testa scorrono sull’ immagine di una grande scala a chiocciola in penombra ripresa dall’ alto, da cui una donna scende con molta esitazione, evitando forzatamente di guardare nel vuoto. Da questa prospettiva la scala sembra un grande occhio: gli scalini ricordano l’ iride e la tromba la pupilla. Ed è proprio l’ occhio l’ unico particolare dell’ assassino che vedremo nell’ esordio, e che sarà riproposto più volte nel corso del film, inquadrato con le stesse proporzioni della scala. Inoltre la donna che scende ritraendosi dal vuoto della tromba della scala è Helen (Dorothy McGuire), la protagonista, che ha perso la parola in seguito ad un trauma subito nell’ infanzia. Il vuoto da cui si ritrae è la paura di ricordare quel trauma, di guardare dentro se stessa, paura che il dottor Parry (Ken Smith) tenterà di farle superare (la stessa scena, ripresa da un angolo diverso, si ritrova nel finale del film). Sono dunque presentati fin dai titoli di testa i due elementi principali su cui si basa il testo filmico: quello visivo dell’ occhio, attraverso un gioco di luci e ombre e di proporzioni; e quello psicologico, attraverso il significato traslato, simbolico, che assume la paura di guardare nel vuoto. La scala a chiocciola diventa quindi, più che un simbolo, una figura che stuttura e organizza le dinamiche della diegesi.

4. L’ esordio e la finzione.

Le prime immagini hanno un’ importanza decisiva nel rapporto con lo spettatore: esse determinano il regime di finzione e di credenza di tutto il film. L’ esordio ha la funzione di “trasferire” lo spettatore da una situazione di realtà (la sala del cinema) ad una situazione immaginaria (la finzione della diegesi). E’ questa la tesi che Roger Odin sostiene analizzando i titoli di testa e le prime immagini di Une Partie de campagne di Renoir . Egli nota come la prima immagine del film, dell’ acqua che scorre senza ulteriori elementi che possano chiarire se si tratti di un fiume o di un mare, sia quasi un simbolo, una rappresentazione astratta che suscita nello spettatore curiosità: “sappiamo che solo la storia che il film sta per raccontare ce ne fornirà la chiave” . “Si crea dunque nello spettatore il desiderio di finzione” ; in sovrimpressione su questa immagine scorrono poi i titoli di testa: questi, enunciando il farsi del film, sembrano opporsi all’ effetto di finzione che il film invece tenta di costruire. Denunciano il film come prodotto, opponendosi al film come diegesi . Tuttavia i titoli di testa proclamano proprio “lo statuto immaginario di ciò che il film ci farà vedere, della diegesi” : in questo modo lo spettatore viene rassicurato nel suo desiderio di finzione, “i titoli di testa sono ciò che permette veramente l’ entrata dello spettatore nella finzione” . Ma c’ è ancora un momento intermedio: due didascalie, la prima delle quali informa di alcune variazioni apportate al film in assenza del regista. Fortunatamente una seconda didascalia annuncia, in modo evasivo, ciò che accadrà nel film. Lo spettatore in questo stadio è ancora “lettore di finzione” : si porta al culmine il suo “desiderio di finzione” . Ancora una dissolvenza in nero ritarda il momento in cui appariranno finalmente le immagini: “un paesaggio dotato di tutta l’ evidenza dell’ esser-ci” . Le prime immagini diegetiche del film, i movimenti di macchina, la scoperta dei luoghi e dei personaggi…: “tutto lavora, in questo inizio di film, per canalizzare lo sguardo dello spettatore verso ciò che egli deve vedere, per evitargli ogni sforzo, ogni rischio di dispersione” . Anche la colonna sonora partecipa a rendere omogenea la sequenza: “come accade assai spesso nei film di finzione, la sequenza musicale introduttiva ha la funzione di presentare i grandi temi che saranno ripresi nel prosieguo del film; è una vera e propria sequenza di ‘ouverture’” . La caratteristica principale di tutti questi elementi è comunque la progressività: “il film assicura così per tappe successive l’ entrata dello spettatore nella finzione” . Odin ha accennato nella sua analisi all’ uso di elementi simbolici e iconici in apertura del film per suscitare nello spettatore il desiderio di finzione: riprendendo questo spunto è interessante notare come nel noir del dopoguerra questi elementi fossero impiegati spesso per introdurre concetti nuovi, o comunque di non immediata comprensione per il pubblico. Pensiamo soprattutto alle prime volte che viene trattato il tema della psicanalisi e, in particolare a Io ti salverò (Alfred Hitchcock, 1945). In questo film la prima inquadratura dopo i titoli di testa mostra una porta chiusa, sulla quale appaiono in sovrimpressione due frasi: la prima è una citazione da Shakespeare: “Non negli astri è il fato, ma in noi stessi”. La seconda tenta di spiegare in poche righe il lavoro ed il fine dello psicanalista: “Questo film tratta della psicanalisi, metodo con il quale le scienza moderna cura i disturbi della psiche. Lo psichiatra cerca di indurre il paziente a parlargli delle sue più riposte e segrete emozioni, indaga e tenta di aprire la porta chiusa del suo subcosciente. Quando i complessi che disturbano la mente ammalata sono scoperti od interpretati, il paziente guarisce e i demoni della pazzia si dileguano per sempre”. Il film inizia dunque con l’ inquadratura fissa di una porta chiusa e nella frase che appare in sovrimpressione è riportata, tra gli scopi dello psicanalista, proprio l’ espressione “aprire la porta chiusa del (…) subcosciente”. Odin parla indifferentemente di carattere iconico o simbolico a proposito dell’ inquadratura dell’ acqua di Une Partie de campagne . Ma simbolo e icona sono, se seguiamo la classificazione del segno di Peirce, due cose ben diverse: l’ icona esibisce una similarità o un’ analogia: “si può parlare di un rimando dal significante al significato in virtù di una contiguità effettiva” . Il simbolo invece designa un oggetto per mezzo di un’ associazione di idee: “esso è necessario ed è fondato su una contiguità ascritta, convenzionale, assegnata su connessioni abituali” . Icona e simbolo, a differenza dell’ indice, il terzo tipo di segno individuato da Peirce, sono accomunabili solo in quanto“possono essere definiti segni culturali; sono cioé segni prodotti dall’ uomo secondo regole sociali espresse in un codice socialmente sancito, con una precisa volontà di comunicazione” . Nel nostro caso la porta chiusa è evidentemente un simbolo, un qualcosa che sta per qualcos’ altro. In questo senso è un elemento di passaggio, di transizione, che, unendo due significati diversi, favorisce la comprensione. La porta chiusa che vediamo è associata, nella frase che leggiamo, al subcosciente: una zona della psiche chiusa persino a noi stessi. Il film che sta per incominciare ci rivelerà in che modo è possibile tentare di aprire quella porta. Per il suo carattere di transizione tra due significati il simbolo come tale favorisce l’ ingresso dello spettatore nella finzione: diventa un tramite tra la realtà e la diegesi (nel nostro caso tra la coscienza, zona certa e conosciuta, e il subcosciente, quella parte sconosciuta che può nascondere terribili verità, come il film ci racconterà). Il carattere simbolico della porta è palesato nella frase sovrimpressa: di nuovo abbiamo una conferma della tendenza del cinema narrativo classico a guidare lo spettatore, ad evitargli ogni sforzo di comprensione . La psicanalisi stessa è basata sull’ interpretazione dei simboli che l’ inconscio produce durante il sogno: l’ uso simbolico della porta quindi può anche avere questa valenza; inoltre i simboli nel film si moltiplicano (ad esempio l’ ossessione di John per le righe parallele, per non parlare della lunga sequenza del sogno). In questo senso la porta chiusa diventa una di quelle unità tematiche di cui parlava Kuntzel: una figura che indica e struttura la dinamica diegetica, simbolo (ancora una volta) di un tema o di un meccanismo interpretativo ricorrente nel film, basato, in questo caso, proprio sul simbolico: la psicanalisi. Anche l’ esordio di Dietro la porta chiusa (Fritz Lang, 1948) fà ricorso ad immagini dal carattere onorico-simbolico: il film si apre su una superficie d’ acqua, mossa solo da alcune onde circolari provocate probabilmente da un gocciolio. Una voce femminile fuori campo, accompagnata da un lento movimento diagonale di macchina, racconta che, secondo il libro sull’ interpretazione dei sogni, se una ragazza sogna una barca arriverà in porto sicuro, mentre se sogna i narcisi è in grave pericolo. Intanto l’ immagine passa lentamente su una barchetta di carta e su alcune scure sagome stilizzate di fiori che si stagliano grandi e minacciose sull’ acqua. Poi la voce narrante off afferma di non voler pensare al pericolo: “Oggi è il mio giorno di nozze…” : una rapida dissolvenza incrociata mostra una grande campana che suona; un’ altra dissolvenza ci porta all’ interno della chiesa, dove sta per celebrarsi il matrimonio: Marco, il futuro sposo, è già davanti all’ altare. Il primo problema che si pone allo spettatore è la definizione del carattere delle immagini stilizzate che vede sullo schermo: certamente sono immagini simbolico-oniriche : Cecilia, la voce narrante off, parla di sogni (la barca e i narcisi) e del loro significato, ma non dice che cosa ha sognato, afferma solo di non voler pensare al pericolo quel giorno. Le possibilità sono due: o sono le immagini di ciò che Cecilia ha sognato, e allora non possiamo prevedere cosa accadrà nel film, in quanto sono presenti entrambe le alternative (il pericolo e la sicurezza); oppure, più probabilmente, non hanno alcuna attinenza con il suo sogno: sono solo la rappresentazione stilizzata delle sue parole, dei suoi timori, forse del suo stato d’ animo. Il dubbio rimane: quest’ ambiguità muove nello spettatore il desiderio di conoscere cosa accadrà, il desiderio di finzione. A questo punto da un regime di finzione onirico, irreale, si deve passare alla finzione narrativa vera e propria, cioé al racconto della storia di Cecilia. Questa transazione avviene, ancora una volta, gradualmente: appena Cecilia pronuncia la parola “nozze” vediamo apparire sullo schermo una grande campana; i suoi rintocchi si confondono con il motivo musicale d’ apertura. Di nuovo un elemento simbolico: la campana che suona riporta, per associazione di idee, ad un giorno particolare di festa che è, tradizionalmente, il giorno delle nozze. Ma il carattere simbolico della campana è diverso dal carattere simbolico delle prime immagini: la campana è reale, non più stilizzata o palesemente ricostruita (come la barchetta di carta e i fiori). Possiamo dire che in questo film l’ ingresso dello spettatore nella finzione sia provocato gradualmente con un passaggio da un regime simbolico-onirico (le prime immagini stilizzate) a un regime simbolico-diegetico (la campana). Lo spettatore entra nella finzione narrativa progressivamente, accompagnato da due diversi regimi simbolici. Di nuovo il simbolo, in quanto passaggio da un significato ad un altro, viene usato come luogo di transizione: da uno stato all’ altro della finzione.

5. L’ “effetto primato”.

David Bordwell, riprendendo un’ espressione di Meir Sternberg , definisce come “primacy effect” quella prima forte impressione che lo spettatore riceve all’ inizio del film e che influenzerà in modo determinante la sua visione: “the film begins. Concentrated, preliminary exposition that plunges us in ‘medias res’ triggers first stong impressions, and these become the basis for our expectations across the entire film. (…) In any narrative, the information provided first about a character or situations creates a fixed baseline against which later information is judged” . L’ effetto primato è una caratteristica costante del cinema narrativo classico: “the classical cinema trades upon the primacy effect” . Interessa ovviamente soprattutto il personaggio, il modo in cui viene presentato: lo star system è complice nascosto di questo sottile e implicito gioco con lo spettatore. Bordwell ricorda come gli attori venissero scelti secondo la caratterizzazione che riuscivano a dare al personaggio, sempre in base ad un’ ottica di profitto economico . Ma la prima impressione non è legata soltanto al modo in cui il personaggio viene presentato, di cui parleremo diffusamente in un capitolo a parte, ma investe anche la narrazione stessa, la sua costruzione: l’ esordio invita lo spettatore a formulare delle ipotesi che saranno poi confermate, sviate o smentite nel corso della narrazione. Le ipotesi che il testo suggerisce possono essere per Bordwell di tre tipi : più o meno probabili: é più facile che accada una cosa anziché un’ altra; più o meno simultanee: talvolta due alternative sono considerate entrambe possibili dallo spettatore; in questo caso si ha un’ incremento di attesa, di suspense. Altre volte può capitare che un’ ipotesi si sostituisca ad un’ altra formulata precedentemente, ed allora si avrà sorpresa. Infine alcune ipotesi possono essere più o meno esclusive: il racconto può obbligare lo spettatore a scegliere tra alternative opposte, di cui solo una è verosimilmente possibile. “Broadly speaking, Hollywood narration asks us to form hypotheses that are highly probable and sharply exclusive” , ma spesso il film noir incoraggia lo spettatore a formulare ipotesi sbagliate, confondendolo e esasperando la sua curiosità: “the mystery tale always depends upon highly retarded exposition. (…) The narration may even be revealed as retrospectively unreliable” . Tuttavia il film noir rimane sempre legato ai precetti hollywoodiani: infatti la narrazione è strutturata logicamente, gli effetti seguono le cause; inoltre “the mystery film’ s overt play of narration and hypotheses-forming is generically motivated” . Infatti, ad esempio,Odio implacabile (Edward Dmytryk, 1947) si apre con la scena di un omicidio. Vediamo solo la collutazione tra due uomini, ma non il volto dell’ assassino. Le prime indagini della polizia individuano un sospettato, Mitchell, che ispiegabilmente non si trova: lo spettatore è indotto logicamente a credere che il colpevole sia lui. Lo spettatore dunque formula ipotesi che il testo suggerisce: sorpresa e disorientamento seguono la suspense, a seconda di quale alternativa viene confermata . “Gaps are continually and systematically opened and filled in, and no gap is permanent” . L’ importanza della sequenzialità è quindi determinante per l’ interpretazione del film. Proprio per questa sua caratteristica, “a film’ s beginning typically becomes a summarizing segment for interpretation” . Bordwell nota come lo stesso Kuntzel riconosca e accetti tacitamente l’ idea dell’ esordio come luogo da cui ha origine il percorso interpretativo dello spettatore . Questa problematica tuttavia coinvolge un tema più ampio: la focalizzazione, il rapporto tra il sapere del personaggio e il sapere dello spettatore. Di ciò parleremo nel prossimo capitolo.

FEDERICO GAROLLA. Gente d’Italia. Fotografie 1948 – 1968
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