L’esordio nel film noir americano (1945-50)

CAPITOLO II

L’ esordio nell’ analisi del racconto.

1. Temi e situazioni ricorrenti.

Lo scopo di questo paragrafo non è tentare di compilare una tipologia degli eventi canonici che aprono la narrazione, ma, esaminando i modi in cui l’ analisi del racconto e la narratologia hanno affrontato il problema dell’ esordio, evidenziare le situazioni scatenanti che innescano l’ intrigo. Le categorie generali individuate dai diversi autori si possono ricondurre a due schemi principali: l’ emergere di una mancanza (di per sé o provocata da un danno esterno), che innesca una ricerca, e il porsi di un conflitto, che determina situazioni di contrasto e di lotta tra i personaggi. Cercheremo di verificare, di volta in volta, se queste concezioni possono essere applicate anche all’ analisi del film e con quali risultati.

1. 1. Danneggiamento e mancanza.

Vladimir Propp, attraverso l’ analisi comparata degli intrecci di fiabe russe, ha individuato uno schema compositivo e narrativo unitario: tale schema “prende origine dall’ osservazione che nelle fiabe di magia personaggi diversi compiono identiche azioni o, il che è lo stesso, che azioni identiche possono essere eseguite in modi assai diversi” e “riproduce tutti gli elementi costruttivi (costanti) della favola, lasciando da parte gli elementi non costruttivi” . Gli elementi costanti vengono chiamati funzioni: ciascuna di esse costituisce “l’ operato di un personaggio determinato dal punto di vista del suo significato per lo sviluppo della vicenda” . Ciò che è importante per Propp è dunque il valore dell’ azione di un personaggio all’ interno della globalità del testo. Le funzioni sono identificate in numero limitato, sono soltanto 31, e il loro ordine di successione è molto stabile. L’ inizio del racconto è dato da una funzione che può essere duplice: il danneggiamento o la mancanza. Nel primo caso “l’ antagonista arreca danno o menomazione ad uno dei membri della famiglia”, nel secondo “ad uno dei membri della famiglia manca o viene il desiderio di qualcosa” . Le due funzioni sono morfologicamente equivalenti, ovvero possiedono la stessa funzionalità nello svolgimento complessivo del racconto: infatti si può considerare il danneggiamento come una mancanza provocata dall’ esterno . Per Propp non esistono altre formule di esordio. Tuttavia mentre la mancanza è già data inizialmente, il danneggiamento è preceduto da una parte preparatoria: in questo caso la fiaba si apre con una situazione di accentuato benessere che “funge evidentemente da fondo contrastante per la sciagura a venire” . La parte preparatoria consiste a sua volta di sette funzioni diverse ma che possiedono lo stesso fine: preparare e facilitare la funzione del danneggiamento con la quale ha inizio l’ azione narrativa vera e propria . E’ ciò che accade, ad esempio, in Morirai a mezzanotte (Anthony Mann, 1947): il ritratto del protagonista Steve (Raymond Burr) che l’ esordio disegna è quello di un uomo felice, affettuoso con la moglie Emily (Audrey Long), che lavora onestamente e vive in un modesto appartamento. Rientrato dal lavoro, riceve la telefonata di un nuovo cliente: Steve accetta un trasporto per quella stessa sera in cambio di una grossa ricompensa. Ma colui che lo ha ingaggiato non è altro che il componente di una banda di fuorilegge che vuole usare il suo furgone per compiere una rapina. In una situazione di stasi si introduce un elemento estraneo alla volontà dei protagonisti, un danneggiamento: il rifiuto di Steve a partecipare alla rapina lo porterà a dover fuggire, con la moglie, sia dai gangsters che dalla polizia, che lo crede uno di loro. La stessa cosa accade in Boomerang, l’ arma che uccide (Elia Kazan, 1947): qui è l’ intera comunità di una piccola e tranquilla cittadina, in cui la vita scorre nella mediocrità e nella monotonia, che, ad un tratto, subisce un danno: l’ assassinio immotivato di uno dei suoi più illustri e stimati rappresentanti, padre Lambert. La volontà della popolazione di far giustizia ad ogni costo, unita alle pressioni di alcuni politici in vista delle elezioni comunali, porterà l’ opinione pubblica ad accusare un innocente, a favore del quale si batterà solo, osteggiato da tutti, il procuratore distrettuale Harvey (Dana Andrews). Se si può mantenere l’ idea del danno o della mancanza come temi ricorrenti nell’ esordio, lo schema della narrazione come sequenza di funzioni sembra riduttivo e non applicabile certamente ad un racconto complesso come quello del film. Inoltre il danno procurato dall’ antagonista all’ eroe nella fiaba russa viene sempre punito, cosa che non accade in tutti i tipi di racconto. Tuttavia lo schema di Propp ha il pregio di evidenziare l’ importanza dell’ esordio come momento cruciale per lo sviluppo della narrazione, sottolineando l’esistenza di una parte ben determinata del narrato che prepara e dà il via all’ intrigo. La stessa idea di una mancanza come tema ricorrente dell’ inizio si ritrova, anche se in termini un po’ diversi, in Claude Bremond. Questi critica al modello proppiano di essere valido solo in riferimento alle fiabe di magia, e propone una teoria che renda conto di tutti i tipi di racconto. Infatti per Bremond l’errore commesso da Propp è stato il considerare le funzioni collocandole in una prospettiva temporale: “la fiaba russa sarebbe organizzata in funzione di quello che ne è – cronologicamente – il termine” . Questo teleologismo è responsabile del legame di implicazione reciproca tra le funzioni: “è proprio perché il cattivo ha commesso un danneggiamento che viene punito ed è proprio per punire il cattivo che il racconto gli fa commettere un danneggiamento” . Bremond, mantenendo come unità narrativa di base la funzione, individua una sequenza elementare le cui fasi sono tappe obbligatorie per ogni racconto : “a) una funzione apre la possibilità del processo sotto forma di comportamento da tenere o di evento da prevedere; b) una funzione realizza questa virtualità sotto forma di comportamento o di evento in atto; c) una funzione che chiude il processo sotto forma di risultato raggiunto.” In questo schema nessuna funzione impone come necessaria quella che segue: il narratore conserva sempre la libertà di condurre la questione che apre la sequenza, facendola attualizzare oppure mantenendola virtuale, interrompendo il processo, ad esempio con qualche impedimento, o lasciando che si concluda a buon fine. E’ solo in rapporto ad un progetto umano che gli eventi si organizzano e prendono un senso : a seconda che favoriscano o si oppongano a questo progetto gli eventi possono essere classificati in due sequenze fondamentali :

oppure:

Le fasi di miglioramento e di peggioramento si alternano reciprocamente, insieme ad una terza, la riparazione : il ciclo, in diverse combinazioni, può ripetersi indefinitamente. Se la prima fase consiste ad esempio in un processo di miglioramento, si dovrà partire da una condizione di negatività che, per Bremond, si identifica nella mancanza . In linea di principio da questa condizione iniziale è possibile solo un miglioramento. Se il narratore a questo punto sceglie di proseguire, dovrà ricreare un nuovo stato di tensione con l’ introduzione di elementi che turbino tale equilibrio (la fase del peggioramento) . In generale il narratore, dopo ogni opzione, non ha che la scelta tra due termini, alternativi e contraddittori: in questo modo appare possibile disegnare a priori il reticolo delle scelte offerte, combinandole in uno schema che sia, come Bremond stesso lo definisce, “una base per la classificazione dei tipi di racconto” . Prendiamo ad esempio un film in cui l’ esordio sia caratterizzato da una mancanza: in Il terrore corre sul filo (Anatole Litvak, 1948) la protagonista, Leona Stevenson (Barbara Stanwyck), è costretta a letto da una malattia cardiaca ed è sola nella grande casa di New York: i domestici sono il libertà ed il marito Henry (Burt Lancaster) sta tardando inspiegabilmente. Leona continua a comporre il numero dell’ ufficio del marito, trovandolo però sempre occupato: data l’ora tarda non ci dovrebbe essere più nessuno. Decide allora di farsi passare la comunicazione dal centralino: in quel momento Leona intercetta il colloquio di due uomini che stanno organizzando un omicidio per quella stessa sera. La vittima è una donna ed il delitto dovrà avvenire alle undici e un quarto precise: il rumore del treno che a quell’ ora passerà vicino all’ abitazione dovrà coprirne le urla. La comunicazione si interrompe proprio mentre uno dei due sta per pronunciare l’ indirizzo. Leona ha solo il telefono per comunicare con l’ esterno: richiama il centralino, poi la polizia. Intanto i minuti passano ed Henry non torna. Decide di chiamare la segretaria del marito: questa è solo la prima di una lunga serie di telefonate che porterà via via alla luce una verità tragica per Leona: il marito commercia in stupefacenti e deve pagare una forte somma di denaro. Per far fronte al suo debito ha deciso di farla uccidere e riscuotere i soldi dell’ assicurazione. Alla fine riuscirà a parlare con Henry, ma troppo tardi: l’orologio segna le undici e un quarto ed un uomo armato di coltello è già entrato nella sua stanza. Lo svolgimento narrativo è teso ad unire due avvenimenti in apparenza distinti: il ritardo di Henry e la telefonata che Leona intercetta casualmente. Il collegamento avviene gradualmente, attraversando anche false strade (la segretaria del marito parla di una donna entrata quel pomeriggio in ufficio, invece il ritardo di Henry non sarà affatto da imputare ad un tradimento). La mancanza iniziale (Henry) non viene né colmata né giustificata, se non nel finale, in cui si rivela falsa. Infatti Bremond ritiene che la mancanza implichi “un ostacolo che si oppone alla realizzazione di uno stato più soddisfacente e che viene eliminato man mano che si sviluppa il processo di miglioramento” . In questo caso l’ ostacolo, la verità che Leona scopre sul marito e su se stessa, non viene eliminato ma, al contrario, portato gradualmente alla luce, attraverso le sedici telefonate che Leona fa e riceve . Quella di Henry è dunque una falsa mancanza, creduta tale dalla moglie che non conosce la verità, a cui logicamente segue un graduale processo di peggioramento, che consiste nella presa di coscienza di Leona di una situazione che ignorava totalmente, fino alla tragica conclusione. E’ comunque l’ assenza di Henry che fa scattare e che guida tutto l’ intrigo: la sua ricerca diventerà una vera e propria urgenza nel finale del film. Il processo di peggioramento può seguire la sua strada più radicale proprio perché è stabilito su un presupposto finto, che non prevede alcun miglioramento. La suspense del film si basa su quest’ inganno di fondo, sullo scarto delle possibilità narrative tra l’ inizio e la fine del racconto .

1. 2. Equilibrio e tensione.

L’ insostenibilità della situazione iniziale, e quindi la necessità dell’ avvio dell’ intrigo, è data per Tomasevskij non dall’ emergere di una mancanza, ma dal prodursi di uno stato di tensione e di conflitto. Questi propone due diverse concezioni di fabula; nella prima, ormai classica, la distingue dall’ intreccio: gli avvenimenti nell’ intreccio seguono l’ ordine in cui vengono esposti nell’ opera, con tutti i casi possibili di inversioni, anticipazioni o ritardi, mentre nella fabula si presentano esclusivamente nei loro rapporti logici, causali e temporali . La seconda concezione si basa sul concetto di situazione: questa è costituita da “i mutui rapporti tra i personaggi in ogni momento determinato” . Ogni situazione è caratterizzata da una conflittualità, “da un contrasto di interessi, da una collisione e lotta tra i personaggi” che, risolvendosi, porta eventualmente al prodursi di una nuova situazione con nuove tensioni. Normalmente la situazione iniziale, come quella finale, è contraddistinta dalla mancanza di conflitti: è quindi necessario che irrompa una tensione sufficientemente forte da mettere in modo la macchina narrativa. La parte della fabula dedicata a tale fine è chiamata da Tomasevskij esordio: “è questo di solito a determinare l’ intero andamento della fabula e tutto l’ intrigo si riduce ad una semplice modificazione dell’ azione che determina la contraddizione fondamentale introdotta dall’ esordio” . L’ esordio è quindi il momento più importante nello svolgimento narrativo, il momento in cui si determina, in uno stato di equilibrio, una rottura, un conflitto che mette in moto l’ intrigo. Già Propp aveva individuato una fase di stabilità nell’ esordio, ma nel suo schema tale fase era finalizzata a creare le condizioni per il danneggiamento, mentre la mancanza era data fin dall’ inizio. In questo senso Tomasevskij va oltre, concependo lo stato di equilibrio come la normalità, in cui si instaura un conflitto imprevisto e irrisolvibile all’ interno di quella stessa situazione, che porta necessariamente ad un cambiamento: l’ intrigo. Una concezione molto simile è espressa anche da Todorov, che individua nelle sequenze attributive, cioè quel tipo particolare di sequenza narrativa che consiste nel resoconto della trasformazione degli attributi inizialmente assegnati ad un personaggio, la contestazione dell’ equilibrio iniziale e il passaggio ad un nuovo equilibrio. Scrive infatti Todorov: “Le monde décrit au début de la nouvelle est équilibré, il n’y a pas de cause interne pour qu’un changement intervienne. C’ est un desir individuel qui provoque sa mise en mouvement et qui, en même temps, introduit un autre équilibre. La nouvelle raconte le passage du premier au second” . Todorov riconosce nel desiderio individuale il motore della diegesi, ciò che trasforma l’ equilibrio dato nell’ esordio in un altro equilibrio finale. Questa concezione del racconto come passaggio tra due equilibri è stata ripresa nell’ analisi del film da diversi autori, tra cui Jacques Aumont e, in prospettiva diversa, Marc Vernet. Vedremo, nel capitolo successivo, come le loro teorie non trovino un totale riscontro nel corpus di film considerato in questa sede.

2. L’ esordio e la costruzione della fabula.

Abbiamo visto come gli autori affrontati sopra considerino l’ esordio come una parte ben definita della narrazione. Ma qual è lo statuto che si può assegnare all’ esordio in modo da caratterizzarlo e distinguerlo dal resto del racconto? E, soprattutto, in che misura l’ avvio è responsabile della configurazione della diegesi, quanto è grande il suo potere di determinazione sugli eventi che seguono? Due sono le risposte che emergono dalle considerazioni che esamineremo di seguito: da una parte l’ esordio, aprendo una serie seppur limitata di possibilità, si configura come il luogo in cui si fonda il narrato, determinando gli eventi successivi; dall’ altra, essendo la narrazione costruita secondo un fine prestabilito, l’ avvio viene definito dalla conclusione, subordinato allo scopo a cui volge l’ intera operazione diegetica. Le due concezioni, diametralmente opposte, fanno capo entrambe esclusivamente a una visione dell’ esordio come luogo di partenza, più o meno determinato, di una concatenazione di eventi, considerati secondo la loro funzionalità per lo sviluppo del racconto.

2. 1. L’ esordio come apertura.

Il valore dell’ esordio consiste per Bremond nell’ essere il luogo più determinante e meno determinato di tutta la narrazione, in quanto momento di apertura dell’ intera rete delle possibilità; è la base, come abbiamo visto, della sua critica a Propp: “è a partire dal ‘terminus a quo’, che apre nella lingua generale dei racconti la rete dei possibili, e non più a partire dal ‘terminus ad quem’, in vista del quale la parola particolare della fiaba russa opera la sua selezione fra i possibili, che noi dobbiamo costruire la nostra sequenza di funzioni” . Il narratore deve scegliere dopo ogni opzione, tra due termini alternativi e contraddittori: in questo modo il racconto si configura come una rete di possibilità generali che determinano il campo del “narrabile”, attraverso il quale il narratore traccia di volta in volta il cammino del racconto, legando gli avvenimenti “nell’ unità di una condotta orientata verso un fine” . Della stessa opinione è anche Maria Corti, secondo la quale l’ esordio coincide con un progressivo “calo di libertà dell’ autore” , perché “dal momento in cui inizia l’ esecuzione del testo, la libertà di chi scrive è sempre più condizionata dalla struttura generativa del testo” . L’ esordio di Dietro la porta chiusa (Fritz Lang, 1948) sembra concordare con la teoria di Bremond. Il film inizia con un risveglio: “Dissolvenza sul lago, acqua trasparente illuminata dal sole, sulla superficie increspature sempre più larghe. Si sente la voce calda e vibrante di una donna…” . Mentre Cecilia, la protagonista, parla, le immagini, molto stilizzate, riprendono un lago increspato su cui galleggiano una barchetta di carta e un narciso: “Mi ricordo che tempo fa lessi il libro che interpretava i sogni: diceva che se una ragazza sogna una barca o una nave arriverà in porto sicuro; se invece sogna i narcisi è in grave pericolo” . L’ apertura si dirama subito in due direzioni possibili, in due opzioni equivalenti sul piano diegetico: la sicurezza e il pericolo. Cecilia non dice che cosa ha sognato, se la barca o i narcisi; forse proprio questi ultimi, dato che, subito dopo, aggiunge: “Ma oggi non è il caso di pensare al pericolo: oggi è il mio giorno di nozze…”. Tuttavia l’ ambiguità continua: entrata in chiesa, guardando davanti a sè l’ uomo che sta per sposare esita: “D’improvviso ho paura. Sto per sposare un estraneo, un uomo che non conosco affatto. Potrei andarmene, potrei fuggire, sono ancora in tempo. Ma cosa direbbe la gente…No, non posso andarmene. Non so che cosa sia ma ho paura. Forse avrei dovuto seguire il mio oscuro istinto, forse avrei dovuto fuggire. Cominciò nella luna di miele…” La decisione di sposare Marco è la prima scelta determinante del film (il racconto è focalizzato fino oltre la metà su Cecilia, quindi le sua scelte diventano, senza altre mediazione, scelte diegetiche), quella che fa scattare l’ intrigo portando con sè conseguenze che determineranno le alternative successive. Molto vicino alle considerazioni di Bremond è l’ idea di Roland Barthes sullo stretto rapporto che lega la distorsione con la suspense. Barthes considera la funzione l’ unità di base della narrazione. Questa viene vista, diversamente da Propp, come unità di senso: “l’ anima di ogni funzione è ciò che le permette di fecondare il racconto con un elemento che maturerà più tardi sullo stesso livello o altrove su di un altro livello” . Le funzioni si distinguono in nuclei e catalisi: i nuclei sono necessari al senso del racconto perché aprono o chiudono un’ alternativa, le catalisi sono invece “notazioni sussidiarie” che non intervengono sulla natura alternativa dei nuclei . Una serie di nuclei uniti tra loro da una relazione di solidarietà forma una sequenza . Scrive Barthes: “potrebbe sembrare derisorio costruire una sequenza della serie logica degli atti minuti che compongono l’ offerta di una sigaretta (offrire, accettare, accendere, fumare); ma il fatto è che appunto, in ciascuno di questi punti è possibile un’ alternativa, dunque una libertà di senso” . Non si tratta più come in Bremond di una scelta che il narratore compie tra due opzioni, ma di un’ alternativa di significato che il testo apre o chiude di volta in volta: Barthes cambia la prospettiva del problema, mettendo l’ accento non più sul narratore ma sul testo, colto nella sua autonomia di generatore di senso. Arriviamo così alla distorsione, quella forma linguistica in cui “il segno è frazionato, il suo significato è ripartito sotto diversi significanti distanti gli uni dagli altri, ciascuno dei quali, se considerato separatamente, non può essere compreso” . La suspense è per Barthes una forma esasperata della distorsione che “mantiene una sequenza aperta, con dei procedimenti di ritardo e ripresa” e, insieme, “offre la minaccia di una sequenza incompiuta” . Tornando a Il terrore corre sul filo , abbiamo notato come la suspense sia prodotta dallo scarto di possibilità tra l’ inizio e la fine del narrato. L’ esordio infatti apre due alternative che convergono gradualmente fino ad unirsi nel finale: da una parte non chiude la possibilità del ritorno di Henry e dall’ altra rende vago e indeterminato il motivo della sua assenza. Man mano che le ore passano si chiarisce la seconda alternativa, rendendo la prima sempre più improbabile, ma quanto mai necessaria per Leona. Infatti alla fine sembra riaprirsi: Henry telefona, colto dal rimorso, e vorrebbe disperatamente salvare la moglie. Ma ormai è tardi: l’ assassino è già in casa, Leona è bloccata a letto dalla sua malattia e dalla paura, Henry è troppo lontano per difenderla e inoltre la polizia gli è letteralmente alle spalle. Le sequenze aperte nell’ esordio vengono mantenute tali per tutto l’ intrigo, chiudendosi solo nel finale, aumentando così l’ attesa di una risoluzione via via che altre sequenze (le telefonate di Leona) ne definiscono i termini.

2. 2. L’ esordio determinato.

Diametralmente opposta alla concezione di Bremond si trova l’ idea di Genette secondo cui ogni azione narrata nel racconto è determinata non dalla precedente ma dalla successiva, in vista dello scopo finale. L’ arbitrarietà del racconto, ovvero“quella libertà vertiginosa che ha per prima cosa il racconto d’ adottare a ogni passo una direzione o l’ altra, e cioè la libertà, avendo già enunciato ‘La marchesa…’ di continuare con ‘uscì’ oppure ugualmente bene con ‘rientrò’ o ‘si addormenta’, ecc…” , che non è assoluta, ma “soggetta ad un certo numero di restrizioni combinatorie” , in fondo nasconde quel meccanismo di costruzione secondo il quale ogni azione viene determinata dalla successiva, ponendo in primo piano il raggiungimento dello scopo finale, a cui tutta la narrazione tende. “Queste determinazioni retroattive costituiscono precisamente quella che chiamiamo l’ arbitrarietà del racconto, ossia non proprio l’ indeterminazione, ma la determinazione dei mezzi attraverso i fini, in parole povere delle cause attraverso gli effetti” . Il compito di nascondere e dissimulare questo procedimento spetta alla motivazione, che consiste nel sovrapporre ad un tale finalismo un’ apparenza di causalità. La verosimiglianza non è altro che una forma della motivazione. La conclusione appare pertanto come “il luogo essenziale dell’ arbitrarietà, almeno nell’ immanenza del racconto, giacché è lecito cercargli altrove tutte le determinazioni psicologiche, logiche, estetiche che si vorrà” . L’ inizio, al contrario, è il luogo più determinato di tutta la narrazione, determinato dallo svolgimento del racconto stesso e, in ultima analisi, dalla conclusione. Anche Gerald Prince, pur evidenziando una duplice direzione della narrativa “avanti e indietro, da un inizio alla fine che si condizionano reciprocamente” , sottolinea soprattutto l’ influsso della fine sull’ inizio: “poiché la fine condiziona frequentemente l’ inizio almeno nella stessa misura in cui – se non in misura maggiore – viene condizionata da esso, poiché l’ inizio (fin dall’ inizio) è condizionato dalla (idea della) fine, si potrebbe sostenere che la fine è presente fin dall’ inizio e ancora prima dell’ inizio stesso” . Ancora più radicale è la concezione di Katherine Young, secondo cui è il finale ad essere scelto per primo dal narratore: “The story then moves from the beginning toward that end as its completion. The appearance of consequentiality in narrative is produced by counting the last event from the Taleworld as an end, and then constructing the story backwards to include whatever is necessary to account for it, thus arriving at the beginning (…). Beginnings and ends are introduced into the Taleworld by the Story realm, thus rendering consequential what is merely consecutive” . In questo senso l’ inizio e la fine non sono solo dei margini, ma anche delle cornici, in quanto “they constitute instructions that the events within the boundary are to be taken in relation to one another” . La fine quindi determina l’ inizio: “beginnings do not so much imply ends as ends entail beginnings” . Abbiamo dunque visto come sia Genette che la Young considerino la causalità come un procedimento che nasconde la struttura finalista del racconto. L’ esordio è condizionato dagli eventi che seguono: determinato dalla fine diventa nient’ altro che l’ ultimo anello di una catena di azioni, un luogo di per sé privo di valore. Ma l’ esordio non è soltanto l’ avvio, più o meno aperto o condizionato, di una serie di eventi: come ricorda Bordwell “a text’ s beginning creates a ‘primacy’ effect and intrinsic norms against wich later developments are measured” . L’ inizio stabilisce rapporti di priorità tra gli eventi , che condizionano inevitabilmente la visione o la lettura, inoltre presenta al lettore, o allo spettatore, la forma del racconto e il ruolo del narratore (stabilendo relazioni di focalizzazione e di ocularizzazione ), e fonda le condizioni stesse del testo, sia favorendo l’ entrata dello spettatore nella finzione , sia stipulando “un rapporto contrattuale congiuntivo tra un destinatore e un destinatario” . La narrazione non consiste soltanto in una serie di azioni tra le quali si stabilisce una direzione di lettura o di costruzione. Vedremo, nel capitolo successivo, come intendere un testo nella sua autonomia di generatore di senso ed i suoi margini (l’ inizio e la fine) non come confini, punti di arrivo o di partenza, ma come luoghi privilegiati attraverso i quali si accede al testo, e attorno ai quali questo si costruisce, dia, nell’ analisi del film, risultati certamente più interessanti di uno sterile paragone tra esordio ed epilogo. Secondo questa concezione è costruita la teoria di Roland Barthes (che già abbiamo visto sotto alcuni aspetti e che riprenderemo in seguito) e, soprattutto, per quanto riguarda l’ esordio in particolare, la grammatica generativa di Algirdas Julien Greimas.

3. L’ esordio nella teoria di A. J. Greimas.

Gli autori esaminati nei primi paragrafi hanno sottolineato l’ importanza dell’ esordio come momento fondamentale per la diegesi, come luogo in cui si determina, per diversi motivi, una situazione tale da far scattare l’ intrigo. Ma in fondo la causa ultima che provoca il racconto è per tutti la stessa: per Todorov è il desiderio individuale, per Bremond un progetto umano, per Tomasevskij un contrasto di interessi e per Propp la necessità di ovviare ad una mancanza data o prodotta dall’ esterno sotto forma di danno inflitto. La ricerca umana (al di là delle diverse situazioni, ricorrenti o particolari) diventa così ciò che muove l’ azione, anziché ciò che muove all’ azione, trascurando che il racconto non si narra da solo. Greimas in questo senso ha segnato una svolta, cercando di individuare le regole stesse che governano la tensione della diegesi verso un qualcosa, che egli chiama oggetto valore , ma, soprattutto, inserendo queste regole in un programma comunicativo compiuto, con un Destinante ed un Destinatario. Per Greimas il rapporto tra il soggetto e l’ oggetto valore è inscindibile: i soggetti sono tali solo in rapporto agli oggetti valore a cui tendono e, viceversa, gli oggetti valore sono tali solo in quanto voluti dai soggetti . Questa affermazione lo porta a considerare tutta la narrazione come una catena di virtualizzazioni e realizzazioni, cioè di trasformazioni tra il soggetto e il valore da questi investito nell’ oggetto . Nella narrazione gli enunciati che reggono il rapporto del soggetto con l’ oggetto sono sempre enunciati di stato (essere): questi possono essere congiuntivi o disgiuntivi: Enunciato congiuntivo: S  O Enunciato disgiuntivo: S  O dove S = soggetto e O = oggetto valore . Il passaggio da un enunciato all’ altro può avvenire solo se si aggiunge un secondo soggetto operatore (un meta-soggetto) che regga la trasformazione tramite un enunciato di fare. Semplificando la complessa formula originale , si può rappresentare: Realizzazione= F trasformazione [S1 (S  O)] Virtualizzazione= F trasformazione [S1  (S  O)] Dove F = funzione e S1 = meta-soggetto. Le trasformazioni di congiunzione e disgiunzione di un soggetto con l’ oggetto costituiscono il Programma Narrativo, il sintagma minimo di una narrazione. Il meta-soggetto non è identificabile con una realtà definita. Il tentativo di Greimas è di costruire una logica dei sistemi narrativi profondi (grammatica generativa), per poi definirne le concatenazioni e le combinazioni a livello superficiale. I valori che i soggetti investono sugli oggetti sono costruiti dal testo, che però a sua volta comunica con un universo trascendente, fonte e depositario dei valori stessi . Chi regge le trasformazioni degli enunciati di congiunzione e disgiunzione è il Destinante (contrapposto da Greimas al Destinatario, che è il soggetto operante nella diegesi), un’ entità interna alla narrazione o, comunque, percepibile in essa, ad esempio come intervento divino o fato, ma che nello stesso tempo rimanda a quell’ ordinamento trascendente il testo a cui appartiene anche l’ universo dei valori. Il Destinante è la fonte stessa distributrice di valori e sanzioni . Il Destinante opera sul piano cognitivo del narrato, il soggetto Destinatario sul piano pragmatico. Tra i due si stipula un contratto iniziale: il Destinante investe il Destinatario-soggetto dei valori modali di cui è il depositario, ovvero della competenza (l’ essere del fare) necessaria al soggetto per agire (la performanza, cioè il far essere). In questo modo il Destinante esercita un’ azione sul Destinatario, azione capace di produrre in quest’ ultimo una modificazione, una trasformazione. Il contratto iniziale si configura così come attività di manipolazione (far fare) esercitata sul soggetto da parte del Destinante . Il contratto iniziale è richiamato dal contratto finale: il Destinante è qui incaricato di ridistribuire i valori in gioco, di giudicare l’ operato performativo del soggetto attraverso la sanzione (l’ essere dell’ essere): “in seguito al contratto stabilito tra il Destinante e il Destinatario – soggetto, quest’ ultimo passa attraverso una serie di prove per assolvere gli impegni contrattuali, e si trova, alla fine, retribuito dal Destinante, che in tal modo apporta anche il suo contributo contrattuale” . Competenza e performanza costituiscono l’ atto pragmatico, manipolazione e sanzione si pongono invece sul piano cognitivo in quanto modalità del Destinante . In tal modo “il contratto, stabilito fin dall’ inizio tra il Destinante e il Destinatario-soggetto, regge l’ insieme narrativo, la sequenza del racconto appare come la sua esecuzione ad opera delle due parti contraenti: il percorso del soggetto, che costituisce il contributo del Destinatario, è seguito dalla sanzione (…) del Destinante” . Il contratto iniziale include, in forma condensata, l’ intero racconto, compresa la conclusione. In questo senso l’ esordio diventa il momento cruciale della narrazione, una vera e propria matrice, perché fonda in se stesso le condizioni di ciò che deve avvenire: la manipolazione iniziale, di origine trascendente, determina e controlla in modo assoluto la trasformazione della realtà narrata. Nodo alla gola (Alfred Hitchcock, 1948) si può dividere in tre parti fondamentali: l’ omicidio di David (Dick Hogan) da parte di Brandon (John Dall) e Philip (Farley Granger), che costituisce grosso modo l’ esordio, il ricevimento, in cui si sviluppa l’ intrigo, e la scoperta dell’ omicidio da parte di Rupert Cadell (James Stewart), scioglimento ed epilogo. Una volta commesso il delitto, Brandon e Philip hanno una sola possibilità di salvarsi: tentare di non far trapelare le loro emozioni, comportarsi come se nulla fosse successo. Brandon pensa che l’ omicidio sia un’ arte, un “privilegio di pochi”. Solo i più forti possono commetterlo perché sanno non tradirsi. Decide quindi di offrire ugualmente il ricevimento, per non destare sospetti, anche se saranno presenti i genitori stessi di David, e Janet, la fidanzata. Ma ci sarà anche Rupert Cadell, un loro ex professore, che Brandon ritiene, erroneamente, l’ ispiratore dei suoi concetti sull’ omicidio, sull’ arbitrarietà del bene e del male, sulla superiorità di alcuni uomini su altri. Per rendere il gioco più eccitante e per attirare l’ attenzione del professore, Brandon lascia trapelare alcuni indizi: offrirà addirittura al signor Kentley (Cedric Hardwicke), il padre della vittima, la corda con la quale hanno strangolato il figlio per legare dei libri. Alla fine Rupert scoprirà il cadavere di David e capirà quale tremendo effetto hanno avuto le sue parole sulla mente esaltata di Brandon. Philip tende semplicemente a nascondere il corpo di David fino a sera: non è cinico come l’ amico, è più impressionabile e volubile. Brandon invece cerca di dimostrare la sua intelligenza, la sua superiorità, ostentando freddamente particolari che potrebbero tradirlo. Brandon gioca con il non sapere degli altri, logorando in tal modo l’ autocontrollo, già precario, di Philip, che invece sa e teme che gli altri possano capire. I due tendono quindi a oggetti valore differenti: per Brandon il ricevimento è un occasione per beffarsi, con la sua intelligenza, degli altri, mentre per Philip sono ore piene di tensione, vissute con la paura che gli altri possano scoprire l’ accaduto. Rupert Cadell costituisce la competenza di Brandon: quest’ ultimo lo ritiene suo maestro, colui che teorizzava l’ arte dell’ omicidio. Per questo motivo desidera che capisca, che sappia apprezzare alla fine la sua superiorità. Brandon desidera ricevere la giusta sanzione da chi gli ha fornito la competenza ad agire in quel modo. Ma la performanza di Brandon nasce da una competenza sbagliata: ha interpretato gli insegnamenti di Rupert in modo erroneo. La negazione della sanzione corrisponde all’ interpretazione da parte di Brandon della manipolazione iniziale: ha creduto d’ essere investito di un poter fare, in quanto essere intelligente e quindi superiore, di un poter uccidere senza essere colpevole. Tutto ciò si rivela fin dall’ inizio: dopo l’ omicidio Brandon dice “anche questo tragico incidente ha il suo fascino (…), ci vuole perfezione”, e, poco dopo, “a questo punto solo un errore potremmo commettere: quello di essere deboli”. Brandon ha interpretato come una sfida le parole di Rupert: nell’ atto che compie vuol dimostrare una competenza che forse possiede realmente, ma che è contraria all’ universo di valori rappresentato dal Destinante.

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