L’esordio nel film noir americano (1945-50)

CAPITOLO V

La presentazione del personaggio

1. L’ esordio e il personaggio.

I personaggi possono essere considerati solo per il ruolo che svolgono nella narrazione, classificati secondo il valore che il loro agire possiede nell’ economia generale della diegesi. Propp ha definito la funzione proprio come “l’ operato di un personaggio determinato dal punto di vista del suo significato per lo svolgimento della vicenda” . Della stessa opinione è anche Tomasevskij, quando scrive che “l’ eroe (…) come sistema di motivi, può fare del tutto a meno dell’ eroe e della sua caratterizzazione” . Ma altri autori, tra cui Greimas , Bremond , Todorov , Barthes , seppure i modi e contributi differenti, hanno rivendicato al personaggio la sua reale complessità, il suo costituirsi in un sistema che riguarda sia il testo e la sua costruzione, sia le relazioni con gli altri personaggi e il rapporto con il lettore. In questa sede non prenderemo in considerazione la problematica relativa alla definizione di personaggio né il dibattito a riguardo nelle teorie del racconto. Ci interessa sottolineare la particolarità del personaggio cinematografico e, soprattutto, il significato che assume la sua presentazione nell’ esordio del film. Il momento della sua entrata in scena ha un’ importanza determinante non solo per la costituzione del suo ruolo complessivo, ma per lo sviluppo di tutta la narrazione . “L’ immagine di un personaggio sullo schermo è quanto più vicina possibile alla vita reale e deliberatamente lontana dall’ artificio e dalla teatralità; tuttavia, al tempo stesso, essa è quanto più semiotica possibile (…). L’ immagine viene saturata di significati secondari, che percepiamo come un segno o come una catena di segni, portatori di un sistema complesso di significati supplementari” . I meccanismi che “saturano” l’ immagine di “significati secondari” sono principalmente di due tipi diversi. I primi appartengono al mezzo cinematografico in se stesso, sono i codici del linguaggio filmico: l’ inquadratura, la luce, i movimenti di macchina, la scenografia, la musica . Tutti questi elementi costruiscono il personaggio, lo rendono appunto significante, usufruendo di convenzioni culturalmente definite che sottopongono lo spettatore ad un vero e proprio lavoro interpretativo . Gli altri appartengono a quello che Tomasi ha definito, riprendendo un termine di Ferrara, il “modello d’ attesa” del personaggio: il divismo, il carattere già conosciuto del personaggio rappresentato, l’ appartenenza di un film ad un determinato genere, il ruolo della critica e della pubblicità , ovvero tutti quegli elementi, più o meno ricercati dal film stesso, che influenzano la visione dello spettatore. Cercheremo di evidenziare, attraverso una serie di esempi, come la presentazione del personaggio contribuisca, e spesso in modo determinante, a fondare nell’ esordio i meccanismi di costruzione del narrato e i rapporti del testo con lo spettatore, al di là della semplice identificazione con il protagonista. Il carattere del personaggio è formato prevalentemente da elementi indiziari : la sua presentazione direziona la diegesi (è il momento in cui definisce o identifica il proprio oggetto valore, il fine a cui tende nel corso della narrazione), fonda le basi sulle quali sarà strutturato il testo, in relazione agli effetti che vuol produrre sullo spettatore. Inoltre nel genere noir il personaggio è ambiguo quasi per definizione: combattuto (La disperata notte) , doppio (Lo specchio scuro) , psicopatico (La furia umana) , vinto (La sanguinaria) o vincitore (Boomerang) , quando si presenta porta con sè tutte le sue problematiche, svolgendole poi nella narrazione, guidandola sia sul piano della storia (le azioni) che su quello del discorso (i giudizi). La presentazione del personaggio, nelle sue varie tipologie, si innesta nei meccanismi di focalizzazione e di costruzione narrativa, diventando parte fondamentale per la comprensione del testo filmico.

2. I tre gradi della presentazione.

Tomasi distingue tra la messa in scena, la messa in inquadratura e l’ immagine propria di un personaggio . La messa in scena è l’ introduzione del personaggio nella diegesi senza che appaia nella scena che si sta svolgendo: qualcosa segnala la sua presenza, ad esempio la voce off o lo sguardo di un altro personaggio, ma questi non è visibile finché non appare nell’ inquadratura. Tuttavia la presentazione risulta completa solo quando viene enunciata l’ immagine propria del personaggio, cioé l’ “immagine che ci consente e ci consentirà nel corso del film di riconoscerlo e distinguerlo dagli altri personaggi” . In genere l’ immagine propria coincide con il primo piano: la messa in inquadratura può dunque decidere se permettere allo spettatore di riconoscere il personaggio (immagine propria), oppure negargli questa possibilità mostrandolo solo in parte (immagine parziale) o celandolo nel contesto in cui è inserito (immagine indeterminata) . Il ritardo nel presentare l’ immagine propria di un personaggio è un procedimento usato spesso nel noir, che permette di aumentare o esasperare l’ attesa dello spettatore. Nell’ esordio di La scala a chiocciola viene mostrato solo un particolare del maniaco assassino: l’ occhio. In questo modo ogni volta che tornerà la stessa immagine sullo schermo lo spettatore si troverà a riconoscere immediatamente una situazione di pericolo, ignorata però dagli altri personaggi del film. E’ quindi in una condizione privilegiata: questo scarto informazionale, come abbiamo visto nel capitolo precedente, innesca il meccanismo di suspense, lega lo spettatore all’ attesa del momento in cui si scoprirà la vera identità del maniaco (la sua immagine propria). Lo stesso procedimento si ritrova anche in La città nera in cui l’ assassino è riconoscibile dallo spettatore per il grande anello che porta al dito di una mano. Ma il protagonista, Danny (Charlton Heston), non conosce l’ esistenza di questo elemento; la consapevolezza di essere inseguito da uno sconosciuto diventa per lui un incubo: potrebbe essere chiunque. Un’ interessante variazione di questo meccanismo si trova in Lo specchio scuro : qui il problema che l’ esordio presenta è riconoscere tra due gemelle assolutamente identiche, quale ha compiuto l’ omicidio, e per fare ciò non resta che ricercare un qualunque elemento che, differenziandole, sveli la colpevole. E’ chiaro che se c’ è un tratto che possa permettere di distinguerle, questo si trova sul piano psicologico: un’ analista scoprirà, attraverso una serie di test, che una delle due sorelle è psicopatica e pericolosa. La sua malattia trapela da un’ aggressività maggiore rispetto alla sorella, da un modo diverso di agire e di comportarsi con gli altri personaggi, i quali tuttavia continuano a non notare questa differenza, chiara ed evidente per lo spettatore. In La disperata notte il protagonista, Jo Adams (Henry Fonda) viene presentato attraverso tutti e tre i gradi evidenziati da Tomasi: un uomo è appena stato ucciso, il suo cadavere è disteso sulle scele di un palazzo. A quell’ ora e a quel piano solo una persona è in casa: la polizia bussa alla sua porta ma una voce da dentro dice di voler essere lasciato in pace, quindi spara dei colpi di pistola attraverso la porta (messa in scena). Quando i poliziotti si allontanano per cercare di entrare dalla finestra, l’ uomo esce per un attimo dal suo appartamento: lo vediamo in figura intera (messa in inqudratura), con la pistola in mano e l’ aria stralunata, di chi non si rende conto di cosa sta facendo (una bambina dal piano di sotto gli chiede “che ti è successo Jo?”). Poi rientra, e la camera con lui. Mentre chiude la porta dietro di sè viene ripreso in primo piano (immagine propria): barricato nel piccolo appartamento ripercorre con la memoria tutta la storia, fino al momento in cui ha ucciso quell’ uomo. L’ avvicinarsi graduale dell’ esordio al personaggio corrisponde alla necessità del testo di fondare da una parte un’ attesa per lo spettatore, e dall’ altra una motivazione al passaggio da una focalizzazione esterna (il film inizia con una voce narrante off che introduce la storia) ad una interna. La camera si avvicina al volto di Jo poco per volta, ‘a tappe’, poi, nello stesso modo, vengono introdotti i suoi ricordi: in un primo momento pensa ad alta voce, e se ne accorge guardandosi allo specchio, in seguito sentiremo direttamente il suo pensiero, non vi sarà più bisogno di giustificare la finzione che rende possibile entrare ‘dentro’ il personaggio. In questo modo entrambi i meccanismi, l’ attesa e la focalizzazione interna, possono entrare in funzione gradualmente e parallelamente, facendo risiedere nel secondo (i ricordi di Jo) la spiegazione del primo (l’ omicidio iniziale).

3. Il personaggio e la definizione dell’ oggetto valore.

Presentare un personaggio significa non solo mostrarlo nella sua apparenza, nei suoi tratti caratteriali principali o comunque importanti per lo svolgimento del racconto, ma anche introdurre e definire il fine che tenderà a conseguire nella storia, che cosa praticamente lo spinge ad agire: il suo oggetto valore . In questo modo l’ esordio stabilisce una progressione, direziona il personaggio verso lo scopo che deve raggiungere. In Morirai a mezzanotte (Anthony Mann, 1947) Steve (Raymond Burr) viene presentato come un uomo felice: vive serenamente con la moglie Emily (Audrey Long), che ha sposato da poco, in un piccolo e modesto appartamento. Una sera, al ritorno dal lavoro, riceve la telefonata di un cliente che gli propone un trasporto per quella stessa sera. Davanti alla generosa ricompensa, Steve accetta, seppure a malincuore: Emily infatti aveva preparato accuratamente la cena per festeggiare il loro anniversario di matrimonio. Ma il cliente è in verità Walt (Steve Brodie), il componente di una banda di rapinatori che vuole servirsi del furgone del protagonista per compiere un furto. Gli eventi costringeranno Steve a fuggire con la moglie Emily dalla città, continuamente inseguiti dai gangsters e dalla polizia. La ricerca di Steve, il suo oggetto valore, diventa la riconquista di un luogo sicuro per la sua famiglia. Il gangster Walt lo ha costretto a lasciare la sua casa, allontanandolo prima con l’ inganno poi con la violenza e la minaccia da tutto ciò che la casa rappresenta per Steve, così come appare nell’ esordio: una vita sicura, tranquilla e felice. Sarà invece costretto ad affrontare i pericoli dell’ “esterno”, dove troverà solo insidie: il coinvolgimento nella rapina, la fuga per salvare la moglie, e, in seguito, sarà truffato nell’ acquisto di un’ auto, usato come “esca” dalla polizia, continuamente insidiato da Walt. Non troverà nessun aiuto: dovrà uccidere il gangster da solo. L’ esordio polarizza due elementi: il “dentro” e il “fuori”. Il valore di Steve è tornare nel “dentro”, nell’ ordine e nella tranquillità, da cui è stato fatto uscire con l’ inganno. La dicotomia foris/domi, “il campo incolto, lo spazio deserto opposti al luogo abitato” , rappresenta, per estensione, quella di campagna/città, natura/cultura e, soprattutto, pericolo/ protezione . Il personaggio è strettamente legato allo spazio che occupa: Steve viene presentato nel “dentro”, la casa rappresenta la vita che si è scelto e che vuole vivere, la sua libertà, in contrapposizione alla costrizione dell’ inganno e della minaccia. La ricerca di un nuovo “dentro” diventa il suo oggetto valore. Ne Il caso Paradine (A. Hitchcock, 1947) la presentazione della protagonista è volta a costituire quel suo segreto che sarà il perno diegetico di tutto il film: è colpevole o innocente? E se è colpevole, per quale motivo avrebbe ucciso il marito? Maddalena Paradine (Alida Valli) nasconde un mistero, ed il suo fine è mantenerelo tale: l’ esordio, introducendo il personaggio, fonda nello stesso tempo il suo oggetto valore: presentando la signora Paradine ne crea il segreto. La prima inquadratura è una strada di Londra di sera: alcuni passanti camminano rapidamente sui marciapiedi, passano delle automobili, la vita è ancora intensa. La camera si ferma sulla facciata di un palazzo, esitando, per pochi istanti, sul portone d’ ingresso. Una dissolvenza incrociata ci porta all’ interno: contrapposto all’ oscurità della città, illuminata dalla debole luce dei lampioni, qui è il bianco il colore predominante, dei pavimenti e delle pareti. Un maggiordomo, portando un bicchiere su un vassoio, apre una grande porta laccata: la signora Paradine appare di schiena, seduta al pianoforte. Le brevi scene che precedono l’ apparizione in campo del personaggio costruiscono un veloce ma progressivo restringimento dello spazio:

Gli oggetti, i luoghi, sono indici, in quanto mezzi di definizione di uno spazio, ma nello stesso tempo sono anche simboli, perché irradiano senso al di là del semplice significato referenziale . Lo spazio chiuso in cui si trova il personaggio è correlato alla chiusura del personaggio stesso : per tutto il film la signora Paradine apparirà sempre in luoghi ristretti, separati da tutta l’ altra gente: la cella del carcere, il parlatorio, il banco degli imputati in tribunale. La porta che il maggiordomo apre è “un ulteriore oggetto separatore che punteggia il percorso di avvicinamento del personaggio al suo luogo più intimo” . Maddalena Paradine, durante il processo, non chiederà mai all’ avvocato Kean (Gregory Peck) di scagionarla, ma, quasi ossessivamente, di poter tornare a casa, l’ unico luogo sicuro in cui può nascondere il suo segreto, al di là della violenta invadenza della giustizia e della gente. La signora Paradine appare di spalle: è vestita di nero ed ha i capelli raccolti. Il maggiordomo, annunciando la cena, appoggia un bicchiere sul pianoforte, alla sua destra, quindi si allontana. La camera si avvicina alla donna, muovendo verso destra, simulando lo stesso percorso del maggiordomo. In questo modo vediamo il volto della protagonista in primo piano (la sua immagina propria). Colpisce la sua bellezza: i gesti sono formali, lenti e composti, un altro segno della sua alta estrazione sociale. La camera poi si allontana, inquadrandola in piano americano. La signora Paradine, dopo aver bevuto qualche sorso, si volta verso un grande dipinto appeso alla parete, alla sua sinistra, raffigurante un uomo in uniforme. Lo osserva per alcuni istanti, riprendendo a suonare il pianoforte. Le informazioni indiziarie sono sufficientemente chiare: è una donna giovane e bella, sola in un grande e signorile palazzo, vestita di nero, quindi è probabilmente in lutto verso il marito ritratto nel quadro che osserva alla sua sinistra. Ma tutto cambia quando il maggiordomo annuncia l’ arrivo di due ufficiali di polizia: uno di questi comunica alla protagonista di avere un mandato di arresto per lei. Mentre l’ ispettore scandisce l’ accusa (aver volontariamente provocato la morte del marito somministrandogli del veleno) la camera, in primissimo piano sulla donna e posta poco più in basso del suo sguardo, muove lentamente sul suo viso da sinistra verso destra, quasi a voler scoprire e rivelare un qualunque tratto che possa smentire o confermare quelle parole. E’ ciò che viene definito reaction shot , un’ inquadratura che coglie una particolare espressione, o un moto, un gesto, di un personaggio come reazione ad un determinato evento. Tuttavia la caratteristica di questo “sguardo” non si configura solo nella volontà del narratore di cogliere un indizio che possa rivelare allo spettatore l’ innocenza o la colpevolezza della donna, ma anche nell’ implicita violenza dell’ accusa che le viene rivolta. La distanza assai ridotta tra la camera e il volto di Maddalena Paradine appare quasi un’ aggressione nei confronti del suo mondo interiore, un desiderio esasperato di voler scoprire cosa è realmente accaduto, uno sguardo indagatore che invade e violenta quel suo rassegnato dolore che custodisce con tanta gelosia. E’ lo stesso atteggiamento che terrà su di lei nel corso del film prima l’ opinione pubblica, i giornalisti e i curiosi, poi l’ avvocato Kean, che, credendola innocente, per scagionarla andrà contro la sua stessa volontà. Attraverso la presentazione del personaggio, il narratore fonda quindi il mistero, o meglio il senso di mistero, sul quale verterà poi la narrazione, e, insieme, costruisce il desiderio di sapere dello spettatore.

4. Il divo e il personaggio.

Come ha notato Campari non si può prescindere, parlando del personaggio, del suo legame con l’ attore che lo interpreta, specialmente se questi è un divo . La notorietà raggiunta dall’ attore in prove precedenti condiziona inevitabilmente l’ impostazione del nuovo personaggio: infatti “più l’ attore è conosciuto e più si riduce il margine delle connotazioni sul personaggio stesso” . Il momento della presentazione dovrà quindi necessariamente tener conto dei significati già acquisiti, e riconosciuti come tali dallo spettatore, che l’ attore trasporta inevitabilmente nella sua interpretazione. Nelle prime immagini di L’ isola di corallo (John Huston, 1948) un’ auto della polizia ferma un autobus affollato di gente. I due agenti salgono per cercare alcuni indiani appena evasi di prigione. La camera è posta oltre la prima fila di sedili, dietro il conducente. Mentre uno degli agenti parla con quest’ ultimo, un passeggero, seguendo il secondo poliziotto, si volta indietro dalla parte della camera, trovandosi così inquadrato in primissimo piano: è Humphrey Bogart. Durante questo movimento l’ attore deve abbassare lo sguardo per non guardare direttamente in camera: l’ interpellazione diretta viene evitata , tuttavia l’ affacciarsi di Bogart sullo schermo sembra quasi un voler farsi riconoscere, un voler dire al pubblico: “sono io!”. Certo lo spettatore si aspetta già di vedere Bogart, ma la sua presentazione così improvvisa nella prima sequenza del film provoca comunque sorpresa: appare subito nella sua immagine propria, occupando tutto lo spazio dello schermo con il suo volto. Nel 1948, anno di uscita di L’ isola di corallo , erano già ben delineati i tratti caratteristici dell’ eroe ‘bogartiano’: del 1941 sono infatti Una pallottola per Roy di Walsh e Il mistero del falco di Huston, film che inaugurano “l’ uomo che disprezza le convenzioni e l’ autorità e segue solo un suo codice morale, straordinariamente affascinante nella sua solitudine e nella sua cinica concezione della vita e delle donne” . In seguito tornerà con questi tratti in tutti i film che ha girato negli anni Quaranta: Casablanca (Curtiz, 1942), Acque del sud (Hawks, 1945), che inaugura il sodalizio con Lauren Bacall, con la quale interpretò ancora Il grande sonno (Hawks, 1946) e La fuga (Daves, 1947). Quindi all’ uscita di questo film le caratteristiche dei ‘tipi’ interpretati da Bogart erano decisamente già ben definite e collaudate dal successo del pubblico. La sua presentazione in L’ isola di corallo non può quindi compiersi come la presentazione di un personaggio qualunque, proprio perché si tratta di un personaggio ricorrente, già ben caratterizzato nei suoi tratti di eroe, costruiti e consolidati dai film precedenti. Per lo stesso motivo sappiamo, parafrasando Bordwell , che non può essere reale l’ egoismo che traspare dai comportamenti di Franck McCloud nel corso della narrazione: è chiaro che Humphrey Bogart rinuncia difendere Nora e il vecchio signor Temple dalla prepotenza dei gangsters solo perché aspetta un momento più opportuno per farlo. Anche Gilda, nell’ omonimo film di Charles Vidor, appare sullo schermo improvvisamente ed in primo piano. In questo caso la sua presentazione conclude, anziché inaugurare come nel caso precedente, il lungo esordio del film. Rita Hayworth è, al fianco di Glenn Ford (che interpreta il giovane Johnny Farrell), indiscutibilmente la protagonista: il titolo porta il nome del personaggio che interpreta e la locandina è costituita esclusivamente dalla sua sola fotografia. Il ritardo nella sua presentazione ha un evidente significato all’ interno dell’ economia dell’ intreccio: dal momento del suo arrivo tutti i rapporti e gli equilibri tra i personaggi vengono alterati, nulla sarà più uguale a prima. Per evidenziare un tale cambiamento l’ esordio si dilunga oltremodo nel descrivere la carriera di Johnny, da giovane immigrato spiantato a direttore della bisca clandestina del suo migliore amico, Ballin Mundson (George McReady). Inoltre in questo modo aumenta l’ attesa della diva: Gilda è il film che ha lanciato definitivamente Rita Hayworth, ma già aveva ottenuto un ragguardevole successo in Bionda fragola (R. Walsh, 1941), Sangue e arena (R. Mamuolian, 1941), L’ inarrivabile felicità (S. Lanfield, 1942) e Non sei mai stata così bella (W.S. Seiter, 1942). Gilda entra nell’ inquadratura improvvisamente, mentre si porta indietro i capelli e sorride a Ballin, l’ uomo che ha appena sposato. La sua raggiante bellezza viene amplificata dal primo piano con cui è ripresa e dalla sua apparizione inaspettata: la prima inquadratura è infatti quasi una soggettiva di Johnny, che, accompagnato da Ballin nella stanza della moglie, riconosce in questa la sua odiata ex-amante. Sorpresa per Johnny e per lo spettatore: la presentazione non può che avvenire in questo modo, attraverso il primo piano di Gilda; la sua immagine propria acquista il significato di un evento fondamentale che cambierà il corso delle cose. Con questa scena inizia, a tutti gli effetti, l’ intrigo: la presentazione di Gilda diventa un vero e proprio spartiacque tra la fase introduttiva, in cui si narra la storia di Johnny, ed il resto del film, le conseguenze dell’ arrivo di Gilda nella vita di Ballin e dello stesso Johnny.

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