Gillo Dorfles definì Zauli “tra i pochissimi ceramisti italiani che sono compiutamente scultori”
Building Gallery di Milano ospita la mostra CARLO ZAULI. Faventia 10/12, aperta al pubblico fino al 11 novembre
Dal 10 ottobre 2024 all’11 novembre 2024, BUILDINGBOX ospita la mostra Faventia 10/12 dello scultore Carlo Zauli (Faenza, 1926-2002).
Sperimentatore di materiali, tecniche di cottura, smaltature e cromie, Zauli è stato tra gli artefici che hanno elevato la tradizione della ceramica a forma espressiva primaria, superando la secolare distinzione tra arti maggiori e arti minori che, purtroppo, era ancora viva nel panorama artistico della metà del Novecento.
Gillo Dorfles definì Zauli “tra i pochissimi ceramisti italiani che sono compiutamente scultori (anche se questa distinzione, in realtà, non ha più senso)”.
Il lavoro di Zauli, pur partendo da tecniche e prassi “tradizionali”, è ricco di sperimentazioni e afflati concettuali che hanno stravolto determinati dogmi e canoni.
In assoluta libertà l’artista ha proseguito le sue ricerche in campo scultoreo, elaborando anche dialoghi con l’architettura e lo spazio pubblico, non disdegnando progetti su scala industriale e l’attività̀ didattica.
E’ stato, con Bruno Munari, tra i fondatori, e poi anche Presidente, dell’ISIA – (Istituto Superiore per le Industrie Artistiche di Faenza).
Nella seconda metà degli anni Cinquanta ottiene i primi smalti bianchi a 1200 gradi che porteranno poi ai famosi “Bianchi di Zauli”.
Negli anni Settanta l’artista elabora forme che si potrebbero definire “geometriche” – come Forma geometrica (1973) e Forma In (1975), le due opere in mostra, nelle quali sperimenta cromie dallo scuro al bianco-argento e bianco-crema o rosso mattone.
Sviluppate con slancio totemico, le linee e il gioco di pieni e vuoti di queste opere creano effetti plastici e ottici inusuali, alternando a volte dettagli “informi” uniti a “irregolarità” e “sbavature” che rendono più viva la materia e la composizione, rievocando sensazioni di un genuino arcaismo.
Le sculture riescono quasi con naturalezza a ridefinire lo “spazio percettivo” del fruitore divenendo veri e propri “dispositivi spaziali”.